I libri di Daša Drndić

I novemila nomi degli ebrei italiani travolti dalla Shoah stampati nel cuore del grande romanzo di Daša Drndić che esce oggi in versione italiana, non costituiscono un esperimento sporadico o un caso isolato. L’editore di Zagabria Fraktura ha da poco mandato in distribuzione Belladonna, l’ultimo libro della scrittrice croata, un testo che ancora attende di essere tradotto in altre lingue. Mentre si moltiplicano i riconoscimenti, i premi letterari, i saggi critici entusiasti, sul libro aleggia una densa reticenza. Secondo alcuni è ancora più forte, ancora più disturbante, ancora più scomodo di Sonnenschein, che pure molti critici hanno indicato come uno dei testi più terribili che siano mai apparsi sulla Shoah.
Di nuovo la cura grafica e l’originalità assecondata dall’editore ci mettono davanti a un oggetto fuori dal comune.
Le liste di gente sterminata in questo caso sono due e sono poste nei risvolti iniziale e finale di copertina. Nei grandi fogli che possono essere dispiegati come enormi manifesti murali di denuncia dell’orrore si susseguono ordinatamente i nomi dei 2061 bambini olandesi che furono deportati e uccisi dai Paesi Bassi fra il 1938 e il 1945. E il lettore capisce bene che fra quei nomi è possibile cercare il nome di una bambina che si chiamava Anne Frank. Nell’altro foglio appaiono i nomi dei 1055 giovani pionieri sionisti Halutzim provenienti dall’Austria e dalla Germania e assassinati in Serbia a Sabac Zasavica nel 1941 mentre tentavano di raggiungere la Palestina attraverso il Danubio e il Mar Nero. Quel viaggio non fu mai compiuto, nonostante l’eroismo delle forze partigiane e della popolazione locale, a causa delle ambiguità delle autorità britanniche che governavano la Palestina, della complicità dei fascisti italiani e dei collaborazionisti usta scia che aprirono le porte a un massacro fra i più atroci.
Se sulla copertina di Sonneschein gli occhi di vetro dalle palpebre d’acciaio nascondono l’orrore dello sterminio, in Belladonna un grande occhio fisso lacrima sangue. Il titolo fa diretto riferimento all’estratto da una radice utilizzato in medicina già dai tempi antichi.
La pianta di belladonna, atropa belladonna è conosciuta per le proprietà ottenute dal frutto, foglie e radici, in quanto agisce su cuore, polmoni, vene, cervello e sistema nervoso e sebbene sia una delle piante più note dal punto di vista farmacologico, è in realtà estremamente tossica e i suoi principi attivi hanno un effetto paralizzante sulle terminazioni nervose del sistema parasimpatico determinando una riduzione della sensibilità al dolore. La belladonna è nota nell’utilizzo farmacologico come analgesico o narcotico, come antispastico delle vie gastrointestinali, urinarie e biliari. Ma le gocce di atropina sono utilizzate per provocare anche la dilatazione delle pupille, effetto che le donne del Medioevo ottenevano con l’estratto delle radici di questa pianta in modo da rendere il loro sguardo artificialmente sognante e attraente.
Saldando ancora con un marchio indelebile e doloroso passato e presente, Daša Drndić non si limita a svelare e ripercorrere vecchi orrori e fantasmi che perseguitano l’Europa. Ci porta adesso nel vivo della quotidianità di una società che per conquistarsi a tutti costi un posto nel mondo dell’euro e del libero mercato, per liberarsi dal retaggio della dittatura socialista e dell’economia vigilata, finisce per mettere a repentaglio la propria anima e la propria umanità. Fra i mille rivoli di citazioni, episodi e riferimenti di cronaca, si dipana la vicenda del protagonista, Andrea Ban, scrittore e psicologo 65enne che vede sgretolarsi da un momento all’altro la sua sicurezza e la sua identità. Liquidato dal mercato del lavoro e costretto alla miseria da una pensione inadeguata, ammalato e invecchiato in un mondo che non rispetta i vecchi e non tollera l’onesto scorrere del tempo, che venera una bellezza artificiale e drogata, il protagonista comincia una faticosa e dolorosa rilettura della storia e della sua esistenza. Riscopre il dolore e le ferite della società croata come sono oggi vissute proprio in quella Fiume aspra, complessa e inquieta. Di nuovo il collage letterario e la forma sperimentale in bilico fra rigore del linguaggio e apparentemente disordine delle memorie. Di nuovo un caleidoscopio che vorrebbe aiutarci nell’estrema fatica di ricomporre l’immagine completa delle nostre origini, di denunciare le nostre ferite e di mettere le ali alle nostre speranze.

Pagine Ebraiche febbraio 2015

(23 gennaio 2015)