Ricordando Daša Drndić (1946-2018)
“La Memoria di cui scrivo
è un pugno nello stomaco”

“L’Europa che abbiamo costruito dopo la fine delle dittature e dopo la caduta del Muro di Berlino è fragile. I suoi ideali di progresso, di libertà, di giustizia sociale sono stati traditi. E la tentazione della dittatura e dell’orrore resta sempre in agguato. Non siamo al sicuro e non abbiamo il diritto di rassicurarci. Abbiamo anzi il dovere di sorvegliare quello che avviene”. Così spiegava la scrittrice croata Daša Drndić al direttore di Pagine Ebraiche Guido Vitale in una lunga intervista pubblicata dal giornale dell’ebraismo italiano nel febbraio del 2015, quando nelle librerie italiane usciva “Sonnenschein – Trieste” (Bompiani editore): il grande romanzo di Drndić, considerato dalla critica internazionale un capolavoro, in cui si trovano i nomi di tutti gli ebrei italiani deportati durante la Shoah. Un libro di memorie e Memoria che la stessa autrice – scomparsa ieri a Fiume all’età di 71 anni – aveva definito “un pugno nello stomaco”. Una definizione simile a quella che il suo editore croato Even Seid Serdarević ha dato al Guardian per tutti i libri di Drndić: leggerli “era, dal punto di vista emotivo, come ricevere continuamente dei pugni nello stomaco”. “Senza freni né compromessi, lo scrivere di Drndić non ha mai permesso ai suoi lettori di allontanarsi dalle verità, dai fatti di alcune delle peggiori atrocità del XX secolo”, ha affermato Serdarević. E il monito lanciato attraverso Pagine Ebraiche ne è un esempio. Di seguito l’intervista rilasciata da Drndić al giornale dell’ebraismo italiano e la lettura critica del suo libro Sonnenschein – Trieste a firma degli storici Anna Foa e Alberto Cavaglion.

Il suo primo gesto, al nostro incontro, è anche un brutale atto di lacerazione. Una copia dell’edizione curata dal suo coraggioso editore di Zagabria di Sonnenschein, il grande romanzo che ora appare finalmente in edizione italiana e che ha fatto parlare di un capolavoro dei nostri tempi e di un modo nuovo di raccontare la Memoria, assume una dimensione inattesa. Non è un vezzo o un artificio se il testo è interrotto, nel bel mezzo delle sue 520 pagine, da una interminabile lista di nomi. Uno dopo l’altro appaiono i nomi di tutti gli ebrei italiani che dalla Shoah non hanno fatto ritorno. La lettura inciampa inevitabilmente in un macigno piazzato nel bel mezzo. L’occhio prende la rincorsa per saltare la lista, poi finisce per scorrerla ordinatamente, quasi un omaggio, una misura della sofferenza, infine cede alla tentazione di controllare la presenza di nomi conosciuti, di persone care, di specifiche identità cancellate di cui qualcosa portiamo dentro. Queste cento pagine piantate nel cuore del libro ti prendono a tradimento, ci sbatti contro, poi cerchi di girarci attorno in qualche modo, quasi fossero un muro. Daša Drndić apre l’edizione originale di Sonnenschein. Il suo editore porta un nome che lascia il segno: Fraktura. Ha fatto di tutto per farla contenta e la lista dei nomi prende una corporeità che nessuno, da Gallimard, a Houghton Mifflin Harcourt a Bompiani, ha avuto il coraggio di ritentare. I nomi scolpiti lì fra le pagine, sono stampati su fogli che hanno una fragilità, fanno parte della rilegatura, ma alla saldatura con le altre pagine la carta è lievemente forata.
In altri suoi romanzi è posta la tragica lista completa, nome per nome, di una intera categoria di persone sterminate. Ma in questo caso, quando si è trattato di elencare ogni nome degli ebrei italiani morti nella Shoah, ha voluto che le pagine fossero fustellate. Una lista che sta qui per disturbare, proclama il libro, se ti dà fastidio puoi anche toglierla di mezzo, perché come vedi queste pagine non sono come le altre, le puoi strappare, le puoi escludere, le puoi mettere da un canto.
Splende il sole sulla pietra bianca d’Istria e il corso di Fiume, a pochi passi dalla riva destra della Recina, il gagliardo corso d’acqua che segna per sempre il destino diviso e ferito d’Europa, e dall’apice azzurro del Mediterraneo, si dipana quasi spensierato. Senza aggiungere una parola Daša Drndić apre il libro. Ora non sfoglia più, ma afferra quelle pagine, le lacera alla radice, separandole dalle altre.
“Ecco, è stata questa la Shoah e questa deve essere la Memoria”. Eppure il libro sbilenco che mi restituisce, una volta rimossa quella lista di nomi non ritrova la sua coerenza letteraria, la bella rilegatura si sfalda sciancata, le altre pagine perdono la sequenza, l’ordine violato delle cose sprofonda. Lo strappo è insanabile, la rilegatura non potrà più essere guarita.
“Questa è stata la Shoah – commenta la scrittrice che ha ancora in mano i fogli sparsi – e questa deve essere la Memoria. La Shoah non è stata solo una storia come un’altra di violenza, di bestialità. Ma molto peggio, è stato il progetto di cancellare dalla nostra società un elemento fondamentale. È per questo che niente può più essere come prima e la rilegatura strappata della nostra vita porta per sempre il segno dello sfregio, non riesce più a stare assieme.

Sonnenschein, che nell’edizione italiana esce ora da Bompiani con il titolo Trieste, lo stesso scelto dall’editore americano, ha sorpreso e disorientato molti lettori. Grande Storia e piccole, piccolissime storie di fondono in un turbine che disorienta e ferisce.
Sonnenschein è un romanzo, non è un libro di storia. Ma è un romanzo che ha a che fare con la Storia. La Storia che facciamo studiare nelle università è diversa da quella che è composta di microscopici frammenti, dei piccoli destini delle singole persone, delle cose minime e quotidiane e delle vite di ciascuno di noi. Ho cercato di raccontare alcuni dei pezzi mancanti, di tutti quei frammenti che ci aiutano a rendere omaggio alla sofferenza della gente che ha attraversato i drammi del Novecento.

Ma questo è stato già fatto mille e mille volte. Era necessario un nuovo romanzo?
È stato fatto percorrendo la via della ricostruzione, del racconto oggettivo, della razionalità. Mettendo a fuoco i grandi fattori che fanno la storia. In Sonnenschein ho voluto che fossero i frammenti minimi della vita a raccontare la storia non l’epica e l’analisi oggettiva della vita.

E le mille citazioni, i frammenti triviali, apparentemente insignificanti, che emergono continuamente nel fiume in piena del racconto? La critica internazionale, che ha gridato al capolavoro, non è riuscita a spiegarlo appieno, anche se molti hanno evocato le modalità narrative di autori come Winfried Sebald, la tecnica del caleidoscopio che prende le mosse dalle briciole, dai frammenti più insignificanti delle vicende umane e li fa lievitare, li fa convergere fino a ricomporre un quadro finale.
Molti hanno parlato di Sebald. Potrei dire di sentirmi più vicina a Thomas Berhardt. E sicuramente all’uomo che più ho amato, lo scrittore serbo Danilo Kis. Lui mi ha fatto scoprire che cos’è la letteratura e che cosa ci stanno a fare gli ebrei. La mia speranza non era quella di salire in cattedra per insegnare la storia al lettore, era quella di dare al lettore un pugno nello stomaco. E per fare questo è necessario partire dalla sua vita reale. La peggiore menzogna che possiamo dire sulla Shoah è che si tratta di una storia lontana da noi, di qualcosa che appartiene al passato e non al presente.

Raccontare la vita degli ebrei costituisce un passo necessario nel suo intento?
La vita ebraica è molto vicina alla mia vicenda di persona, ma il mio desiderio non è mai stato quello di scrivere un libro sugli ebrei. Il mio desiderio è stato quello di scrivere un libro sul fascismo. E non è possibile raccontare cosa è stato e cosa è il fascismo senza evocare la vita degli ebrei.

Molti hanno notato un forte contrasto fra una contestualizzazione minuziosa, la Venezia Giulia dei terribili anni di annessione nazista e la superficialità che amalgama in un turbine fatti reali e frammenti minimi apparentemente poco significativi. A cento anni dall’inizio della Prima guerra mondiale e dallo sfaldamento del grande impero multiculturale dell’Austria Ungheria le vicende che muovono i suoi personaggi hanno costituito anche un itinerario in questa area d’Europa, fra Trieste, Gorizia, Fiume, dove si incontrano e si scontrano tutte le anime d’Europa e dove le ferite del Vecchio Continente continuano a sanguinare a cielo aperto. Molti, da Londra, a Parigi a New York, hanno dato mostra di scoprire solo ora, leggendo Sonnenschein, il dramma di queste terre.
Non ho mai avuto intenzione di scrivere guide turistiche, e nemmeno un libro di scuola. Ho cercato di rappresentare i fatti così come emergono dai mille frammenti della vita quotidiana, dai documenti, che talvolta, come nella nostra vita di tutti i giorni, sono autentici e talvolta no. Di episodi microscopici e apparentemente insignificanti che uniti uno all’altro aiutano a formare una visione del presente e del passato.

Sono trascorsi 70 anni dall’apertura dei cancelli di Auschwitz, al di là dell’intenso lavoro documentaristico ed educativo sulla Memoria, che senso ha creare nuova letteratura sull’argomento?
La legittimazione a parlare in modo vivo e creativo di fascismo e di Shoah non ci deriva solo dal drammatico passato che abbiamo alle spalle, ma anche dal nostro presente, dalla nostra quotidianità. L’Europa che abbiamo costruito dopo la fine delle dittature e dopo la caduta del Muro di Berlino è fragile. I suoi ideali di progresso, di libertà, di giustizia sociale sono stati traditi. E la tentazione della dittatura e dell’orrore resta sempre in agguato. Non siamo al sicuro e non abbiamo il diritto di rassicurarci. Abbiamo anzi il dovere di sorvegliare quello che avviene.

Segnali inquietanti?
Credo di poterlo dire dopo aver insegnato tanti anni nelle università, negli Stati Uniti, in Canada e ora di nuovo in Croazia. L’ignoranza nella quale stiamo crescendo i nostri giovani è un fenomeno molto preoccupante. La loro incapacità di leggere davvero, la loro superficialità sono una nostra responsabilità. La loro dipendenza dall’elettronica e dai social network è una caricatura dell’esistenza. La malattia e la crisi di credibilità del sistema scolastico ed educativo rischia di portarci a un disastro. Non solo i movimenti estremistici, le nuove destre, ma anche la totale assenza di valori costituiscono un terreno dove l’orrore può risorgere. Per questo Sonnenschein ci parla del passato, ma è ben radicato fra gente che ancora oggi, in mezzo a noi, vive ferita nel presente attende di fare i conti con il passato.

Ma in questo romanzo c’è ben altro. La sua battaglia per una lingua viva, caotica e rigorosa al tempo stesso. La complicità delle vittime con i carnefici. La banalità dell’orrore. La macchina dell’informazione come fabbrica dell’odio. La necessità di riformare la forma del romanzo.
È vero, credo che sia necessario assumersi il rischio di tentare un cambiamento, credo che la forma del romanzo vada cambiata. E credo che sempre in ogni nostro atto creativo dovremmo riaffermare la dignità della vita umana. Ognuno di quei novemila nomi dell’elenco rappresenta un libro non completato. La Storia ci ha lasciato poche soluzioni e molti libri ancora da scrivere.

Altre pagine nel cassetto? Progetti per il futuro?
No, non ho progetti. Non sono un’economista, sono una scrittrice.

Guido Vitale

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Pagine Ebraiche febbraio 2015

(L’illustrazione è di Giorgio Albertini)

(23 gennaio 2015)