Una commistione inquietante
Non mi capita spesso, dopo aver finito di leggere un romanzo, di non saper dire se mi è piaciuto o no, se l’ho trovato bello o brutto. C’è qualcosa in Sonnenschein, nella traduzione italiana di Ljiljana Avirović Trieste, il romanzo della scrittrice croata Daša Drndić, che mi ha disturbata, che ha reso difficile la mia lettura, che non so riconoscere e che continua a stridermi nella mente. D’altronde, nonostante il disagio, non sono riuscita a deporre il libro dopo averlo iniziato, con tutte le sue cinquecento pagine, anche se confesso di non averne letto quasi un centinaio, cioè l’elenco degli ebrei italiani morti in deportazione. Non l’ho letto, ma erano lì. Dopo averli passati al volo, la numerazione delle pagine cresceva, dopo averlo saltato l’elenco era dietro di te. Era per questo che era stato collocato là, a metà romanzo? Era un “elenco d’inciampo”, come le pietre d’inciampo dello scultore Demnig, che crescono nelle città davanti ai portoni segnati dalla deportazione?
Il romanzo si definisce, nel sottotitolo, “romanzo documentario”. Con questa definizione, direi nuova per definire le caratteristiche di qualcosa a mezzo tra il romanzo e la storia, l’autrice non vuole definire un romanzo storico, e nemmeno credo un romanzo che si basi su fatti realmente accaduti, ma un romanzo che porta dei documenti incastonati nella sua scrittura, come pietre che abbelliscano un vestito: i nomi dei deportati, appunto, ma anche l’elenco dei trasporti e brani del processo di Norimberga del processo Eichmann e spartiti musicali e tantissime foto del tempo, e citazioni: quasi una seconda trama che copre la prima di poesie, racconti, canzoni, memorie, saggi. Una scrittura, quella di Daša Drndić, che è stata avvicinata dai suoi estimatori a quella del grande Sebald, anche se mi sembra che le somiglianze siano piuttosto esteriori. Sul valore documentario di questi documenti, poi, ho dei dubbi che mi derivano dalla lettura di un’intervista in cui l’autrice sosteneva che un romanziere può, grazie al suo mestiere di scrivere romanzi e non storie, inventare o cambiare i documenti. Ma allora, cos’è ciò che distingue il “documento” dall’intreccio narrativo? Ed è possibile, mi domando, compiere operazioni del genere di fronte a fatti come quelli della Shoah? o non rischiamo di dare spazio alle voci dei negazionisti, che approfittano di ogni contraddizione, di ogni incongruenza? Quella di Sonnenschein è la storia di una famiglia di ebrei “assimilati” che vive a Gorizia e poi a Trieste e che passa attraverso la guerra, possiamo dire, senza lutti, attraverso l’Albania e poi l’Italia. Haya Tedeschi, la protagonista, è nata a Gorizia nel 1923 ed è stata subito battezzata. All’epoca in cui il romanzo inizia, nel 2006, ha oltre ottant’anni e aspetta su una sedia a dondolo di ricostruire i pezzi della sua vita, come in un puzzle . E soprattutto aspetta di incontrare suo figlio, dopo oltre sessant’anni. Ha applaudito Hitler nella sua visita a Napoli, ha visto passare senza farvi attenzione i treni blindati che portavano i deportati, ha conosciuto un giovane tedesco alto e biondo, lo ha amato e ne ha avuto un figlio, che le è stato rapito e messo tra i figli selezionati degli ariani, e ha saputo solo dopo che il padre di suo figlio era uno dei più terribili ufficiali di Treblinka. Siamo dentro il romanzo o dentro il documento? La storia della famiglia Tedeschi attraverso le leggi razziste e la guerra non è quella che conosciamo dalla grande storia: storia che è fatta proprio di storie, di storie individuali alcune delle quali erano quelle di ebrei fascisti e battezzati. Ma nessuno di loro è scampato senza nascondersi, senza pagare un prezzo anche solo in termini di paura o di perdita di dignità e di identità alla morsa nazista che riguardava tutti coloro nelle cui vene scorreva sangue ebraico. La storia dei Tedeschi è una favola, non una favola a lieto fine bensì una piena di viltà e di tristezza, ma una favola. Eppure, molto stride in questa storia d’amore tra un nazista e un’ebrea. Per i nazisti come per il bel Franz, che tanti ebrei ha assassinato a Trebklinka, la razza era una cosa seria. E lo era anche per i fascisti, dopo il 1938. Non è così facile sfuggire se hai sangue ebreo nelle tue vene. Ci sono liste, obblighi di autodenunce, censimenti, dichiarazioni di arianità. La famiglia Tedeschi, ci dice l’autrice, o tace o aderisce al fascismo. È vero, come tanti altri ebrei italiani di quegli anni, solo che dopo il 1938 un ebreo, anche se convertito, non può più essere fascista perché non gli è consentito. Tanto meno può aderire a Salò, come un membro della famiglia Tedeschi nel 1944. Forse, attraverso questo intreccio di vero e di falso, si vuole far risaltare maggiormente ciò che è veramente stato uno dei aspetti della storia nella sua realtà, cioè l’adesione degli ebrei al fascismo, la mancanza di consapevolezza, l’idea di potersi tirar fuori con l’acqua del battesimo. Come, attraverso la storia del bambino di un nazista e di un’ebrea rubato in culla e portato nelle Case Lenesborn, si vuole porre l’accento su questo altro terribile e inquietante tassello del progetto razziale di Hitler, le case dove crescono i bambini di pura razza ariana nati al di fuori dei matrimoni, dall’accoppiamento degli SS con donne ariane “documentate”.
C’è, nella commistione di vero e di falso proposta dal romanzo, qualcosa di disturbante. Il romanzo non si limita più ad occupare lo spazio dell’io narrante, o a privilegiare una “scrittura letteraria”, ma invade il documento, lo questiona, lo mette in discussione cancellando ogni distinzione di vero e falso. Quando l’autrice si limita a raccontare l’incontro dell’io narrante con il passato, allora abbiamo pagine anche molto belle, come quelle dedicate a Trieste, alla scoperta di Haya della risiera di San Sabba. Ma l’incastonamento del documento nel romanzo, con questo dubbio sul documento o sull’idea che si vuole trasmettere, è inquietante. Forse perché l’ho letto con l’occhio di uno storico, anche se posso dire di essere, tra gli storici, tra i più aperti alla narrazione. Ma quando il vero si sposta dal documento alla narrazione e il documento diventa romanzo, allora mi sembra che tutto crolli e venga posto in dubbio. E sulla Shoah, questo non è consentito. Non ancora e non per molto altro tempo, spero.
Anna Foa
Pagine Ebraiche febbraio 2015
(23 gennaio 2015)