…Memoria
27 gennaio. Anche quest’anno si ricorda. E anche quest’anno, per qualche attimo, ci si sofferma a riflettere. Non mi è mai piaciuto il pensiero unico, e non mi è mai piaciuta le retorica della diplomazia. Mi piace invece chiedermi se ciò che tutti pensano sia ciò che tutti dobbiamo pensare, o se non ci siano altri modi di concepire le cose della vita.
Anche quest’anno si ricorda. Qualcuno pensa e riflette. Qualcuno racconta e piange. Qualcuno celebra. Qualcuno studia e sentenzia. Qualcuno, infastidito, si chiede: “Anche quest’anno?”.
Siamo tutti assolutamente convinti che trasmettere il ricordo sia un’azione necessaria e benemerita, un atto di coscienza e di civiltà cui forse non si può opporre alternativa. Perché non si ripeta mai più, come si usa dire. Ma, tanto, sappiamo che si sta già ripetendo, in varie parti del globo. E, allora, il Giorno della Memoria non mi piace più. Non mi piace più perché ogni volta mi riporta alla mente anni di lacrime versate da mio padre e da mia madre che piangevano i loro genitori gassati ad Auschwitz, come se quelle lacrime non siano state parte di me ogni giorno della mia vita.
Non mi piace perché ci trasforma in attori di un dramma che spetterebbe ad altri recitare, perché noi lo abbiamo vissuto, e una volta ci basta e avanza, per doverlo ora ripetere ogni anno. Non mi piace perché si ascolta troppa retorica celebrativa davanti alla pietosa partecipazione di chi forse non capirà mai e non ha interesse a capire. Non mi piace perché ogni anno ci costringe a rispondere a chi ci dice: “Ma anche voi oggi coi palestinesi…”, per non dire di chi si chiede: “Ma erano davvero sei milioni?”, oppure: “Ma guardate quanti genocidi ci sono al giorno d’oggi!”.
E si è stanchi di dover rispondere e precisare e contestare, come se, alla fine della storia, ci si dovesse anche giustificare. Non mi piace più il Giorno della Memoria perché trasforma gli storici della ricerca in professionisti della Shoah, come specialisti che si ammirano allo specchio. Parlino dunque gli ultimi testimoni che l’hanno vissuta sulla carne, parlino i figli che se la sono ritrovata nell’anima succhiandola col latte materno, e poi cada il silenzio. Tanto nulla cambierà. Per pochi che crederanno, per qualche lacrima versata, troppi non faranno neppure la fatica di volgere il capo, troppi non saranno disposti a prestare ascolto, perché quanto succede oggi nel mondo sembrerà loro né più e né meno di quanto è già successo. Non vorranno neppure riconoscerne le mostruose differenze.
E, in questa ostile noncuranza, come pensare che la storia possa permettersi il lusso di essere onesta fino in fondo? Dopo aver focalizzato l’attenzione su coloro che fino a ieri abbiamo voluto credere buoni, e che così buoni poi non furono, quando cominceremo a parlare di ciò che la Shoah ha fatto di noi stessi? Di chi si è potuto salvare e di chi invece non ne aveva i mezzi? Di chi avrebbe dovuto rimanere a guidare i più deboli e ha invece pensato solo a mettere in salvo se stesso?
L’orrore del nazismo (e del fascismo) sta anche nell’aver schizzato di malvagità l’anima dei semplici, impreparati a trasformarsi in eroi, come la situazione avrebbe al tempo richiesto. Solo in qualche rarissimo caso gli uomini delle istituzioni si dimostrarono all’altezza – sto pensando al presidente Giuseppe Jona, che a Venezia si suicidò per non consegnare la lista degli iscritti alla Comunità. Tanti altri, troppi, protetti dal velo dell’oblio, sono ora mitizzati inutilmente. Ma riportare alla luce tanta piccola cronaca, ce ne rendiamo conto benissimo, sarebbe dare all’antisemitismo materia di strumentalizzazione, e non ce n’è proprio bisogno. Oggi, poi, non c’è tempo per ricordare, dobbiamo pensare alla fuga degli ebrei dalla Francia. E speriamo non dall’Europa.
Dario Calimani, anglista
(27 gennaio 2015)