…dialogo

Fra i numerosi anniversari che verranno ricordati in questo 2015 assumono particolare rilevanza i 50 anni dalla pubblicazione della dichiarazione Nostra Aetate. Il 28 ottobre 1965 dai lavori del Concilio Vaticano II emerse questo documento dedicato a una inedita apertura e attenzione verso le religioni non cristiane e in particolare al quarto paragrafo verso gli ebrei. La dichiarazione è stata giudicata da più parti e con non poche ragioni piuttosto reticente, ma non è questo il nodo della questione oggi. All’indomani delle ignobili stragi di Parigi e a fronte di un infittirsi delle tensioni internazionali legate a atti criminali perpetrati a vario titolo in nome di un ipotetico dettame religioso, è a tutti evidente che l’unica strada percorribile in una direzione di pace è quella che pone il dialogo nelle e fra le religioni come priorità politica. Detto questo, detto niente. Se per dialogo intendiamo i pur benefici incontri interreligiosi fra alti rappresentanti delle singole confessioni, mi si lasci dire che quel tempo mi sembra passato e non ha dato grandi risultati. Né il mondo musulmano né quello ebraico hanno gerarchie religiose riconoscibili, per cui la presenza a questi incontri di Imam e Rabbini anche molto importanti non ha e non poteva produrre risultati visibili e duraturi sul terreno della comprensione reciproca. Al più si è trattato di azioni dall’alto valore simbolico, che le violenze odierne hanno ampiamente cancellato. Ma anche il mondo cristiano, che pure spesso è animatore e promotore di questi incontri, deve scontare la sua disunità e la sostanziale assenza di una sensibilità condivisa relativamente al tema del dialogo. Non compaiono quasi mai esponenti del mondo cristiano ortodosso, in ambito protestante c’è una sensibilità altalenante, e il mondo cattolico è fortemente articolato al suo interno e la percezione del dialogo come priorità spesso a livello locale non assume quel rilievo che meriterebbe. Non c’è dubbio che nel corso degli ultimi decenni si siano fatti passi enormi, grazie soprattutto al coraggio di alcuni singoli che hanno potuto e saputo dare un seguito concreto agli auspici espressi nella Nostra Aetate. Tuttavia ancora molto lavoro rimane da fare, e vanno intraprese azioni che potrebbero non essere indolori. A questo proposito mi permetto di porre alcune questioni. La prima: ha senso concentrare il dialogo interreligioso in incontri/conferenze seguiti da poche decine di persone e al più onorati di un trafiletto in cronaca dai giornali locali, con annessa foto ricordo dell’Imam di turno a braccetto con il Rabbino e il Prete? Non è forse il caso di studiare altre forme più efficaci, specie sul piano della comunicazione, in modo da estendere a un pubblico più vasto la sensazione che un dialogo sia possibile e auspicabile? Seconda questione: siamo sicuri che limitare il dialogo all’incontro “intellettuale” sia l’unico modo per affrontare e tentare di risolvere la conflittualità? Se alla base del dialogo viene posta l’idea di “incontro” e di “conoscenza dell’altro”, non è forse anche qui il caso di ripensare alle dinamiche di questo dialogo? Quanto bene potrebbe fare, in termini di frequentazione quotidiana, un programma di apertura dei luoghi di culto ai fedeli delle altre religioni, con spiegazioni legate alla ritualità, alla storia, alle tradizioni? E quanto bene farebbe a tutti l’incontro conviviale a tavola, condividendo con il cibo la conoscenza diretta (non sincretistica) delle tradizioni dell’altro? Non c’è speranza, né mai ci sarà, che un Coulibany qualsiasi proveniente da una periferia parigina sfiori neppure per caso le esperienze di dialogo fin qui proposte. Ma forse se – che ne so – durante Pesach la comunità ebraica facesse pervenire in dono ai detenuti musulmani delle carceri locali dei dolcetti di buon augurio, beh credo che questo atto assumerebbe un valore di dialogo ben più efficace di tante conferenze a volte francamente noiose. Terza questione (e qui parlo al mio mondo religioso, quello ebraico, auspicando che la stessa questione venga posta da altri nell’ambito delle diverse comunità di appartenenza): non è forse giunto il momento di affrontare all’interno delle singole comunità la questione del valore che assume per noi il dialogo con l’altro? Sul piano storico non c’è ombra di dubbio che per le comunità ebraiche la convivenza da gruppo minoritario con realtà religiose molto più grandi e “pesanti” ha condizionato nei secoli il modo stesso di essere ebrei. Per rimanere legati al ristretto ambito italiano, il rogo del Talmud e le successive censure e ghettizzazioni (non propriamente un atto di dialogo) hanno influenzato non poco la vita religiosa e sociale degli ebrei. Quindi certamente le persecuzioni hanno avuto un ruolo importante. Ma allo stesso modo gli ebrei sono stati fortemente condizionati – ad esempio – dalle forme dell’arte cristiana (pensiamo agli Aronot hakodesh dei Bathei hakenesset, che sono tutti degli “altari mancati” al cui centro campeggia una Parokhet invece che l’immagine di un santo). E non c’è dubbio che gli interscambi in materia di cultura gastronomica siano stati uno straordinario e durevole strumento di conoscenza reciproca. Possiamo fare finta che tutto questo non sia stato? Non potremmo interrogarci – fra un Midrash e l’altro – anche sulle modalità di relazioni con l’altro che la comunità ebraica ha assunto nei secoli e che si trova ad assumere ora? Possiamo insomma continuare a pensare che l’incontro con le altre culture religiose si debba limitare a una amichevole disponibilità a “presentarsi” quando invitati e a parlare in maniera generica e divulgativa di storia e tradizioni ebraiche? A me sembra che l’attuale emergenza, il crescere delle violenze antiebraiche in Europa e nel mondo (parallelamente al crescere di violenze su altre comunità religiose perpetrate nel nome millantato di un dovere religioso), imponga un mutamento nell’atteggiamento di tutti, a tutti i livelli della società. Solo uno scatto deciso in questa direzione darà un senso non effimero alla stagione aperta cinquant’anni fa dall’apertura conciliare.

Gadi Luzzato Voghera, storico

(6 febbraio 2014)