Periscopio – Giuda
Il successo di un romanzo può dipendere da tante cose. Dal suo valore letterario, certamente, ma anche dalla forza di attrazione esercitata dall’argomento trattato, dalla capacità di incuriosire, intrigare, suggestionare i lettori. E, com’è noto, capita a tutti di interrogarsi sui motivi della scarsa affermazione di opere ritenute di alto livello, e della grande risonanza ottenuta da lavori giudicati invece modesti. Ma, come si dice, il pubblico ha sempre ragione, e c’è sempre una spiegazione per ogni successo, come per ogni insuccesso.
Il grande favore di pubblico incontrato dall’ultimo libro di Amos Oz, “Giuda” (ed. Feltrinelli), era – in ragione del delicato argomento trattato, e della meritata fama dell’autore – prevedibile. Eppure, esso non appare, a mio modesto parere, tra le sue opere migliori.
E, soprattutto, solleva alcune perplessità sulla natura di quella “questione di ordine religioso” che, come annunciato all’inizio del romanzo, e ribadito sulla quarta di copertina, sarebbe affrontata nel testo, per essere lasciata “irrisolta”.
Un romanzo, certo, è un romanzo, e non va giudicato secondo i parametri di un trattato politico, filosofico o religioso. Ma, quando un testo letterario va a toccare argomenti così indiscutibilmente seri e densi di significato – e, oltre tutto, l’autore, oltre che come romanziere, è apprezzato e considerato anche come attento e lucido opinionista e commentatore politico -, il discorso cambia, e appare legittimo un giudizio non solo estetico, ma anche etico sui suoi contenuti.
Il romanzo è articolato su tre diversi livelli temporali. Il presente, ambientato in una Gerusalemme fredda e desolata, nell’inverno tra il 1959 e il 1960, vede in azione dei protagonisti fasciati da dolore, solitudine, incomunicabilità, che, per varie ragioni, cercano di interpretare il senso di due vicende del passato: una più recente, incentrata sulla persona di Shaltiel Abrabanel, dirigente sionista che, alla vigilia della Dichiarazione di Indipendenza di Israele, e della guerra che ne seguì, si oppose a Ben Gurion e all’idea della creazione di uno stato ebraico, a favore dell’utopia di una convivenza pacifica con gli arabi, senza la separazione di stati e confini nazionali, pagando la sua posizione con l’emarginazione e l’isolamento; l’altra, più antica, rappresentata dalla ben nota storia dell’Iscariota.
Uno dei protagonisti del romanzo immagina che, in realtà, Giuda non sarebbe stato affatto un traditore, ma sarebbe stato l’unico e a comprendere la grandezza della parola del Nazareno, e il suo gesto sarebbe stato finalizzato a fargli compiere l’ultimo, più grande miracolo, dinanzi al quale il mondo avrebbe finalmente compreso il vero significato del messaggio di Gesù. Fallito tale tentativo, Giuda si sarebbe tolta la vita, morendo da “primo cristiano, ultimo cristiano, unico cristiano”. E, così come Giuda, diciannove secoli dopo, anche Abrabanel avrebbe coltivato un sogno di pace e di amore, per essere anch’egli condannato a essere considerato un ‘traditore’ della sua gente. Due domande, così, affiorano dalle pagine del romanzo, accennate in modo obliquo, insinuante e allusivo: che ne sarebbe stato della storia del popolo ebraico, e dell’intera umanità, se gli ebrei non avessero ‘girato le spalle’ alla parola di Cristo, e avessero invece anch’essi compreso quel che aveva compreso Giuda, “primo cristiano, ultimo cristiano, unico cristiano”? E che ne sarebbe stato della storia del popolo ebraico, e dell’intero Medio Oriente, se l’utopia di Abrabanel fosse stata raccolta e condivisa?
Due domande, francamente, alquanto sgradevoli. Quanto alla seconda, credo che se c’è stato un momento, nella storia degli uomini, in cui la strada da percorrere era una sola, questo è stato proprio, per gli ebrei di Palestina, il 1947-49. Un bivio, in realtà c’era, ma non era affatto tra amore e guerra, ma tra combattere e sopravvivere, o morire. Abrabanel non fu un traditore, ma semplicemente un uomo che, in buona fede, sostenne una posizione sbagliata.
Quanto a Giuda, speravo che fosse finito il tempo in cui chi si rifiutava – e si rifiuta – di riconoscere un Dio fatto uomo veniva accusato di avere ‘girato le spalle’ a un messaggio di amore, come se la parola ‘amore’ avesse fatto allora la sua prima comparsa nella storia dell’umanità, e dovesse essere ineluttabilmente pronunciata da una creatura divina. Ma tant’è.
In ogni caso, il parallelo tra i due personaggi, su cui si regge l’intera trama del romanzo, appare decisamente forzato. Sono due vicende completamente diverse, inserite in due contesti del tutto lontani l’uno dall’altro, fra cui non c’è proprio niente in comune.
Francesco Lucrezi, storico
(11 febbraio 2015)