La passione per la morte
C’è un nocciolo duro nei fascismi di sempre e che si riflette su chi ad essi si richiama nell’oggi, del pari a come altri facevano nel passato. Si tratta della tanatofilia.
Traduciamo la parola in questi termini: passione per l’inerte, per quello che fu l’organico e che ora si fa massa inerme, per ciò che non ha (più) vita, quindi per quanto è morto. Non pretendiamo, in questo come in altri casi, di fare della filologia e neanche di dare una definizione scientificamente coerente, ossia valida una volta per sempre. Più plausibilmente, ci interroghiamo su quali siano i fondamenti di certi pensieri ed umori che poi, all’atto pratico, si trasfondono in scelte politiche, offrendo una coerenza paranoide e allucinata a chi le fa proprie e trasformandosi in regimi o, più comunemente, in correnti ideologiche d’uso comune Un viatico per lo sterminio, da più punti di vista, soprattutto se tutto ciò viene trasposto in condotte ed atteggiamenti variamente diffusi e ricorrenti. Senza stabilire impropri nessi di continuità, peraltro assai discutibili da un punto di vista storico, rimane tuttavia il fatto che la tanatofilia sia uno dei tratti più importanti delle attuali formazioni armate che compongono la variegata galassia dei movimenti del radicalismo islamista. Poiché ciò che fa in esse da forza centripeta, nell’assenza di un coerente progetto politico (a meno che si voglia accreditare alle strologate sul Califfato universale la dignità di un disegno che verrà perseguito a prescindere da qualsiasi obiezione delle circostanze, prima ancora che di quegli uomini e di quelle donne che ad esso sempre e comunque si opporranno, con la forza stessa del loro pensiero e della dignità), è la milizia intesa come martirio. “Vieni con noi – paiono dire -, potrai uccidere e, se verrai ucciso, nel qual caso lo sarà per una gloria eterna. Soprattutto, odia la vita degli altri poiché in essa si rispecchia la tua mancanza di personalità. Adora e persegui semmai la nostra proposta, che ribalta i fondamenti del legame umano: è la morte che dà senso alla tua vita”. D’altro canto, prima che il sedicente Stato islamico facesse la sua roboante comparsa e il Boko Haram divenisse quel circuito antropofagico qual è, non c’era già chi andava dicendo che la “voglia dei nostri figli di morire è più forte del desiderio dei vostri di vivere”? Questioni che ritornano, a ben vedere.
Un tema di fondo, quello tanatofilo, già presente nei movimenti fascisti – ed in quello nazista soprattutto – in particolare durante la guerra. Peraltro, il nesso tra ricorso sistematico alla violenza, combattimento condotto allo stremo, sopraffazione continua, distruzione del “nemico” inteso non come un avversario bensì in quanto essere subumano, ma anche e soprattutto “dono” di sé, sacrificio anticipatorio (ossia: milito senza avere nessun obiettivo che non sia la vittoria della causa della mia comunità, sapendo che io ne sono solo un frammento, una molecola, un atomo, come tale sacrificabile in qualsiasi momento), al quale segue una qualsivoglia contropartita del tutto immaginaria e immaginifica, al limite della regressione infantile (che sia l’affermazione della “stirpe” razziale o il paradiso con le vergini poco o nulla cambia, a conti fatti) è consustanziale ai movimenti totalitari ed in particolare a quelli che fanno ricorso sistematico alla forza. Poiché ognuno d’essi condivide con gli altri l’ossessione per il “sempre eguale” Che cosa vuol dire? Se nelle democrazie contemporanee, ma più estensivamente, dal pensiero illuminista in poi, si è andato rafforzando il principio egualitario (ogni uomo conta in sé e per sé e affinché ciò possa avvenire occorre che ad egli, come ai suoi pari, siano offerti medesimi diritti) e se ad esso si accompagna la consapevolezza che non esiste l”uomo” astrattamente inteso bensì gli uomini (al plurale) in relazione tra di loro (il cosiddetto “individuo situato”, che è tanto più persona, essere umano quanto lo si considera nella rete delle relazioni di cui fa parte, senza le quali è pressoché perduto, nudo, indifeso e fragile come un pulcino), il fondamentalismo politico-religioso fa strame di tutto ciò.
All’egualitarismo, infatti, contrappone e sostituisce l’identitarismo, laddove questa parola indica l’ossessione persistente, incurabile per l’”identico”, ossia per ciò (e per chi) è la medesima copia di un unico stampo. Ancorché presentandosi sotto le false e menzognere spoglie di “religione degli oppressi”, che vorrebbe liberare gli schiavi dalle loro catene, l’islamismo radicale è invece appello alla distruzione di ogni forma residua di emancipazione. Laddove quest’ultima parola indica tante cose ma soprattutto la necessità, per parte islamista, di togliere all’individuo come tale la sua stessa soggettività. Sciogliendola nell’acido dell’appartenenza ad un gruppo ferino e feroce, capace di esprimersi solo attraverso la dialettica apocalittica del rapporto tra iniziato (il credente-militante, che riecheggia molti motivi del “soldato politico” di memoria nazista, poiché entrambe le figure hanno ad obiettivo la realizzazione di un disegno che non li vede protagonisti ma strumenti di distruzione) e un messianismo da quattro soldi, usa e getta, del pari al destino delle vittime di un tale rullo compressore. Cosa c’entra la morte? Pressoché tutto. La morte non è solo la distruzione dei corpi umani, della vita che li abita, del bisogno di esprimersi nella sua insopprimibile specificità.
La morte, in questo caso, è la disintegrazione della varietà umana, della diversità del mondo, del pluralismo che ci è stato donato da una scintilla divina. Non è gratuita poesia, è riscontro di fatto. Il mostruoso barbarico è questo “sempre identico” che alligna nei totalitarismi di ieri, di oggi e, ci permettiamo di temere, di un domani dai tratti incerti.
Claudio Vercelli
(15 febbraio 2015)