Fiera del libro di Gerusalemme – La letteratura italiana sbarca in Israele

fairLa Fiera Internazionale del libro di Gerusalemme che si è tenuta la scorsa settimana ha riscosso grande successo e ha visto la partecipazione di scrittori da tutto il mondo, tra gli altri la francese Katherine Pancol, Katja Petrowskaja reduce dal successo di “Forse Esther”(ed. Adelphi) e Aharon Appelfeld. Sono stati protagonisti anche gli scrittori italiani grazie alla collaborazione con associazioni culturali italiane fra cui la “Hevrat Yehudei Italia” (la comunità di ebrei di origine italiana), l’Istituto di Cultura italiana di Tel Aviv e di Haifa e gli Amici della Scuola “Dante Alighieri”.

Inizia con l’ascolto di brani musicali l’incontro con il celebre autore Erri De Luca che ha espresso il legame che convive in lui tra mondo napoletano ed ebraico: “Io parlo yiddish con una pronuncia delle parole assolutamente napoletana”, ha raccontato sorridendo. Simonetta De Felicis (Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Tel Aviv) gli domanda: “Caro Erri, io l’ho sempre vista come uno scrittore impegnato, quale è il suo impegno sociale oggi?”. Dopo un mezzo minuto di silenzio, risponde: “No, non sono un scrittore impegnato, si sbaglia, sono un cittadino impegnato.” E continua:  “Vede, non esiste un scrittore impegnato socialmente. Il mio ruolo come scrittore è di scrivere racconti, le mie idee e di quelle di altra gente. L’impegno sociale non è un privilegio riservato solo agli scrittori. In ebraico si dice  ‘petach picha’ le ilem’, apri la tua bocca al muto. Ed è proprio quello che faccio, o che almeno provo di fare” . De Felicis poi chiede: “Signor De Luca, cosa ha causato il suo grande interesse nel mondo ebraico?”.  “Come dicono gli studiosi ebrei, questa è una bella domanda – e aggiunge De Luca – Sono nato nella metà del secolo scorso e fra i miei eroi di infanzia c’era Mark Edelman, tra gli animatori della rivolta del ghetto di Varsavia. Una volta visitando un museo, ho visto delle parole in yiddish. Sapevo già l’ebraico biblico e riconoscevo le lettere ma non sapevo il significato delle parole. Questa cosa mi ha dato molto fastidio e quindi ho deciso di dedicare un anno allo studio di questa bellissima lingua”. Dal pubblico poi gli viene domandato: “Signor De Luca nei suoi libri si ha l’impressione di un ebreo povero, che non può difendersi e ha bisogno di aiuto. Oggi, dopo la fondazione dello Stato d’Israele, l’impressione dell’ebreo in Italia e nel mondo è cambiata e speriamo che cambierà sempre di più. Lei che ne pensa?”. “Io sono uno del Novecento – risponde – e la cosa migliore per me è  vedere che la storia sia cambiata e che il terribile periodo che ha sopportato il popolo ebraico sia finito”. 

Il dialogo tra lo scrittore della “Solitudine dei numeri primi” (ed. Mondadori) Paolo Giordano e l’autore israeliano Eshkol Nevo (“La simmetria dei desideri”, “Neuland”, “Nostalgia” tutti editi da Neri Pozza) salta a causa l’indisposizione del secondo, quindi a incontrare il pubblico è la psicologa italiana Emilia Perroni che vive a Gerusalemme. La Perroni entra subito nel vivo spiegando come i ‘numeri primi’ abbiano un valore psicologico: usati nel mondo della matematica sono dei numeri che “non si possono prevedere e sono sempre soli e isolati. Come due righe parallele che si incontreranno solo alla fine”.  Paolo Giordano scherzando la ringrazia per essere “Eshkol Nevo per un giorno” e afferma che essere intervistato da una psicologa gli sembra una cosa molto interessante. Perroni gli chiede quanto i ragazzi protagonisti del libro siano simili nella sofferenza a tutti gli altri giovani, ma Giordano risponde: “Non credo siano simili ad altri ragazzi, è vero, forse esistono ragazzi più chiusi con delle abitudini simili a loro, ma secondo me Alice e Mattia, i protagonisti del mio libro, sono dei casi unici. Mentre leggerete il libro capirete di più”. E sul suo viaggio in Afghanistan spiega: “Un autore ha bisogno di un posto che gli dia ispirazione, un posto che sia più grande di lui. Sono stato in Afghanistan per dieci giorni per avere ispirazione per il mio libro ‘Il corpo umano’, e per vedere la guerra nei miei occhi. Per me la guerra è sempre stata una metafora dell’invecchiamento”.  Alla fine dell’incontro è stato proiettato l’omonimo film tratto dal libro “La solitudine dei numeri primi” e diretto da Saverio Costanzo e Giordano ha concluso: “Può sembrare molto diverso da quello che ho scritto ma credo sia interessante perché è sempre importante avere un’altro punto di vista”. 

Paolo Giordano torna poi come protagonista della Fiera presentando l’ultimo libro “Il nero e l’argento” (ed. Einaudi) introdotto da Manuela Consonni, a capo del Dipartimento di studi romanzi e latino americani alla Hebrew University. “Questo è un libro di persone che diventano famiglia – spiega Giordano – Leggendo si ha la stessa sensazione di quando inizi a conoscere una persona e, mano a mano che continui a leggere, la conosci di più. Il mio libro parla di morte e non c’è niente di più non commerciale della morte. L’amore va bene per tutte le stagioni, ma io ho deciso di scrivere di questo.” aggiunge. Gli viene chiesto poi se Israele come l’Afghanistan possa essere per lui un posto di ispirazione, data anche la difficile situazione in cui si trova. Giordano ci pensa e risponde: “Sono stato stupito dall’accoglienza in Israele, dal grande interesse del pubblico e ne sono molto grato. Israele è un paese stupendo in tanti sensi e riconosciuto a livello internazionale (per la scienza, per lo sviluppo tecnologico e anche per la letteratura). Penso che a differenza dell’idea che possa avere un europeo questo sia un paese sicuro e, a differenza di tanti altri nel Medio Oriente, democratico. Però non riesco a dirvi se scriverò d’Israele o meno per il semplice motivo che ritengo che un autore non possa sapere oggi di cosa scriverà in futuro e cosa avrà in cuore da versare sulla carta”.  

Si è tenuto inoltre l’incontro con la scrittrice Manuela Dviri per presentare il nuovo libro “Un mondo senza di noi” (ed. Piemme). A dialogare con lei Simonetta Della Seta, addetto culturale dell’Ambasciata italiana in Israele. Un storia di Shoah, quella raccontata dall’autrice, simile nel dramma  di molti e riscoperta lentamente e dolosamente. Della Seta chiede quale sia stata la scintilla che ha dato inizio al libro. Dviri risponde: “Sinceramente non avevo nessuna intenzione di scriverlo. Non avevo mai scritto di Shoah e non conoscevo la storia della mia famiglia.  Ho la sensazione che questo libro si sia scritto da solo. Tutto è partito da due foto, due vecchie foto dei miei bisnonni che ho avuto grazie ad un amico. E a proposito di amici vorrei dire che sono molto felice, commossa e grata di vedere qui con me tanti amici. Alcuni mi hanno anche molto aiutato a scrivere questo libro. Io senza amici non vivo, non conosco un mondo senza amici”.  Dviri ricorda poi due città italiane del cuore: Ancona e Padova.”Per me Ancona è una città meravigliosa. Ho così tanti bei ricordi… è la città dove andavamo in vacanza la famiglia e Padova, nella quale sono nata, è sempre nei miei pensieri”.  Nel libro viene toccato il tema della cosiddetta “vergogna delle leggi razziali”. Dviri spiega: “La vergogna delle leggi razziali è la vergogna di essere esclusi dalla società e buttato via. In Italia ci furono dei Giusti ma purtroppo anche degli ingiusti. La vergogna è quella di essere cacciati via dalla scuola, di non poter andare in vacanza dove si vuole ecc… “. E alla domanda su quanto successo si aspetta, risponde: “Dopo l’uscita del libro è venuta una persona a parlarmi di mio padre. Per me questo è già stato un gran successo.” Aggiunge: “Mi sembra che si parli di quello che è successo in Germania e poco di quello che invece è accaduto anche in Italia. L’ignoranza è aumentata e purtroppo tante persone non sanno neanche cosa siano state le leggi razziali.”. La scrittrice conclude leggendo una pagina del libro nella quale racconta la morte in guerra del figlio Yoni e spiega: “Ho aggiunto questa pagina perché mi hanno chiesto di mettere qualcosa di più personale nel libro. La mia grande gioia e avere qui con me i miei nipoti.”.

Inizio speciale della fiera poi con il torinese Ermanno Tedeschi in occasione della presentazione del suo libro “Work in progress. Dieci anni di Ermanno Tedeschi Gallery… e oltre” (ed. Silvio Zamorani) che ripercorre la sua carriera di gallerista.  Il volume raccoglie dieci anni di attività dedicati all’eccellenza culturale ebraica e israeliana, “un catalogo-compendio che si addentra tra le opere e tra le personalità degli artisti più significativi con cui Tedeschi ha lavorato in questa decade”.

Tante ancora le occasioni di confronto come “Il racconto ebraico”, un dialogo, moderato da Shiri Lev Ari del Max Planck Institute di Psicolinguistica, tra la scrittrice e traduttrice Elena Loewenthal, Eva Menasse (Francia) e Geneviève Brisac (Austria). Elena Loewenthal ritorna il giorno successivo con un tu per tu presentato da Simonetta De Felicis che si è incentrato sui libri “Contro il giorno della memoria” (ed. Add) e “La lenta nevicata dei giorni” (ed. Einaudi), la storia di Fernande e André in fuga dai nazisti. “La lenta nevicata dei giorni – il cui titolo lo devo a un verso di Primo Levi – è un romanzo capace di ricomporre lo specchio infranto che è la memoria di chi sopravvive” ci racconta Loewenthal.

Si è potuto riflettere sulla letteratura in “Le Radici e le Ali, la memoria del passato e il sogno del futuro nella scrittura letteraria”, nel quale sono intervenute Maria Maria Ida Gaeta, direttrice della Casa delle Letterature e del Festival Internazionale di Roma Letterature e Chiara Valerio, autrice del libro “Almanacco del giorno prima” (ed. Einaudi). Il confronto, svoltosi in italiano, è stato introdotto da Simonetta De Felicis, Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Tel Aviv e si è collegato idealmente al progetto avviato a Roma nel gennaio 2014 che ha visto la partecipazione di quattro autrici italiane e quattro autrici israeliane in dialogo tra loro. 

Patrizia Bisi matematica con la passione per la letteratura ha presentato po il suo libro “Daimon” (ed. Einaudi). L’autrice, commossa dalla grande presenza di un pubblico numeroso, ha parlato della difficoltà di  scrivere un libro, del lavoro dell’editore e di come relazionarsi con la traduzione di una propria opera in una lingua che non si conosce. «Tutto è cominciato la notte in cui un tifone ha spezzato un palo della luce, oscurando quartiere intorno all’ospedale dove mia madre stava partorendo. A Milano, il 24 gennaio, ventuno anni fa. Un parto difficile, lungo e doloroso, per mia madre il primo e l’ultimo della sua carriera». Così inizia la storia di Diletta che è figlia del Maestro Enrico Lanzetti e di Elizabeth O’Leary ed è la protagonista di “Daimon”. 

Gli eventi a sfondo italiano si concludono con il dialogo tra il giornalista e scrittore Jonathan Yavin e il ritorno di Erri De Luca di fronte ad un pubblico numeroso. “Ho sentito che parli l’ebraico biblico e pure l’yiddish. Lo so che è una domanda un po’ strana da fare ad un autore, ma c’è qualche parola che ti piace in particolare ?”, gli chiede Yavin. “Mi piace la parola ‘Ez’ che vuol dire sia albero che legna. In ebraico non esiste la differenza che c’è  italiano fra la creazione di D-o e quella dell’uomo”.  E riguardo al suo modo di scrivere conclude: “Scrivo sempre dal punto di vista di uno dei protagonisti perché  voglio creare un dialogo fra il libro e il lettore. Lo stesso dialogo che c’è quando il lettore sfoglia il libro e il libro è come se gli dicesse: Dai che aspetti, leggi me!”.

Micheal Sierra

(Immagine di Eitan Eloa)

(16 febbraio 2015)