Un giornalista israeliano nello Stato Islamico
Documentare l’orrore dell’Isis

Schermata 2015-02-17 alle 13.18.58Per questione di sicurezza l’israeliano Itai Anghel gira sempre solo, armato della sua piccola telecamera e poco più. È un giornalista e ha un obiettivo preciso; quello di vedere con i propri occhi ciò che accade nei luoghi più caldi della terra.
Non poteva allora che essere di ritorno dalla meta più pericolosa e chiacchierata al mondo: lo Stato Islamico, il territorio controllato dall’Isis dove ha realizzato quello che sui social viene definito “uno dei migliori documentari degli ultimi anni”.
Oltre ad essere stato l’unico giornalista israeliano che ha seguito la rivoluzione egiziana di Piazza Tahrir (il cui documentario è stato considerato il migliore d’Israele nel 2011), Itai ha viaggiato per il Kosovo, l’Iraq, il Libano, la Bosnia e il Ruanda pronto a mostrare eccidi e disastri al mondo intero.
L’ultimo video che ha girato lo vede appunto faccia a faccia con alcuni combattenti dell’Isis catturati dai curdi mentre pone loro le domande alle quali ogni giorno vorremmo dare una risposta. A raccontare la propria esperienza è lo stesso Anghel in una lunga intervista a Rob Eshman per il Jewish Journal.
Per prima cosa, spiega il giornalista, è riuscito ad andare quattro volte in Iraq e due in Siria con il suo passaporto americano ottenuto grazie ai suoi genitori che hanno studiato sei anni alla Columbia University di New York. E a chi gli chiede come riesca ad andare in paesi nei quali essere israeliano significa praticamente indossare un bersaglio al collo, dice: “Se attiri l’attenzione per te è finita. Il segreto è non attirare mai l’attenzione. Alle volte ho paura, paura a morte ma non bisogna mai darlo a vedere. Se gli altri capiscono che sei spaventato, ti danno immediatamente attenzione, se sei spaventato sembra che tu abbia fatto qualcosa di sbagliato”.
Un esempio pratico? “Ero al confine tra Pakistan e l’Afghanistan ed era il giorno esatto in cui l’America aveva iniziato a bombardare. C’era molta tensione, un gruppo di persone hanno iniziato a bruciare le bandiere americane e israeliane. Il mio primo impulso è stato quello di scappare, ma proprio questo avrebbe attirato la loro attenzione. Quindi sono andato lì e ho detto ‘Ciao, come stai? So parlare l’arabo e anche l’inglese, qualunque lingua tu preferisca’. Ho visto che fumava, allora gli ho chiesto una sigaretta. E pensare che nemmeno fumo, ma la circostanza lo richiedeva. Ero indignato, avevano appena bruciato la bandiera del mio paese, ma ho continuato a parlargli perché è così che faccio il mio lavoro da più di venti anni”.
Ed è proprio parlando in arabo che l’israeliano con passaporto americano Itai riesce a realizzare reportage incredibili: “Quando sentono che parlo in arabo sono estremamente colpiti. Mi chiedono come faccia a saperlo e come riesca a girare senza un interprete e io spiego loro: Perché voglio ascoltarvi, voglio parlarvi”.
In questa lingua si rivolge anche ai due combattenti dell’Isis catturati dai curdi e protagonisti del documentario dello scorso dicembre. Dopo aver sistemato con cura il microfono ad entrambi e chiesto il loro nome, Itai domanda: “Quante persone hai ucciso?”, e uno di loro risponde: “Non lo so, molti”. “Hai sparato loro o li hai decapitati?”. “Ho sia decapitato che sparato” risponde quello lucidamente. L’altro spiega poi le cruente modalità dell’Isis e quando Itai sembra essere passato alla successiva domanda, lo interrompe: “Aspetta, non ho finito, voglio dirti che ho usato un coltello smussato per fare in modo che soffrissero di più”.
Itai poi, a bordo di una piccola barca, racconta in camera che sta per arrivare in Siria e lo fa sorprendentemente usando l’ebraico. Ad accoglierlo un uomo che gli dice: “Benvenuto in Siria o almeno quello che una volta si chiamava Siria”.
Lo sguardo poi si sposta al campo i guerriglieri curde che celebrano la fine dell’addestramento. Tante sono ragazze di 17 anni che presto verranno mandate in prima linea a combattere l’Isis. “Ora che avete finito di addestrarvi siete pronti per la battaglia – spiega il capo – Sapete bene che la nostra nazione e la nostra società sono sotto attacco. E noi non ci arrenderemo mai” e loro rispondono gridando alla vita, alle donne, alla libertà. La telecamera di Itai riprende poi i balli e canti per festeggiare: “Quello che vedete è molto di più – spiega in sottofondo – cantano canzoni del Kurdistan che durante il regime di Assad erano proibite e che ora rischiano di sparire per sempre”.
Chiede poi a una delle guerrigliere: “Hai paura dell’Isis?”, lei sorridendo risponde: “Al contrario, è l’Isis che ha paura di noi”. Scorrono le immagini di un territorio nel quale sono appena andati via i militanti dell’Isis, sui muri di ogni casa scrivono il loro passaggio e dentro una moschea lasciano la traccia del cibo sparpagliato a terra, “Ecco, guardate del cous cous” dice Itai. La moschea è stata distrutta. Chiede ad un’altro combattente curdo se ha paura dell’Isis ma quello risponde: “Se avessi paura, non indosserei questa divisa, non mi mostrerei alla telecamera”
“Il documentario mostra il tuo legame con i curdi, hai detto loro che sei israeliano?” chiede Eshman ad Anghel che risponde: “Due di loro lo sapevano ma mi hanno consigliato di non spargere la voce. Alla fine molti hanno capito chi fossi davvero ed è stato bello perché solitamente devo nascondere la mia identità 24 ore su 24. Ed è difficile, perché sono un uomo onesto. Conosci tante persone, magari alcuni di loro diventano tuoi amici ma non puoi mai dire la verità”. Dopo aver saputo che era ebreo, racconta, una ragazza curda gli ha detto : “L’unica comunità che soffre più dei curdi sono gli ebrei”.
Nato quarantasei anni fa, Itai Anghel ha iniziato a lavorare alla radio militare israeliano Galey Tzahal – Galatz ed ha poi continuato con il programma Uvda, simile all’americano “60 minutes” e girato immagini nei luoghi più accidentati della terra. Nel 2006 ha seguito anche le truppe israeliane durante la guerra con il Libano. A chi gli chiede perché fa di tutto per andare a morire, risponde: “Tutti credono che tutte le persone guardino la tv israeliana, la verità è che nessuno la guarda. Solo l’intelligence. E i posti nei quali mi reco hanno l’intelligence completamente nel caos. Il caos è il mio paradiso”.

Rachel Silvera
(17 febbraio 2015)