Francesco Brondello (1920-2015)

don brondelloEra metà settembre, e scendevano giù dalle montagne, attraverso la Val Gesso e la Valle Stura, i militari italiani sbandati della Quarta Armata, insieme a centinaia di ebrei in fuga, provenienti dalla residence forcée di St. Martin Vésubie. Portavano nei loro sacchi e nelle loro valigie tutto quanto possedevano, e avevano bisogno di tutto, di vestiti pesanti per l’inverno, di documenti di identità, di tessere annonarie, di una casa dove nascondersi.
Già l’esercito nazista aveva occupato Cuneo e stava prendendo possesso delle vallate cuneesi.
Don Francesco Brondello, curato a Valdieri, e don Mario Ghibaudo, parroco a Boves, si incontrarono per decidere cosa fare. “Co fuma? Cosa facciamo?” si chiesero spaventati. Due giorni dopo, sabato 18 settembre, il capitano Műller pubblicava il bando che decretava la fucilazione immediata per gli stranieri latitanti e per chi li avesse protetti. Il giorno dopo, domenica 19 settembre, a Boves le SS avrebbero bruciato 350 case, torturato e massacrato 24 persone, bruciato il giovane don Mario Ghibaudo e il parroco don Giuseppe Bernardi.
Ma nonostante la giovane età, aveva solo 23 anni, e il clima di terrore, cosa fare Don Brondello lo sapeva bene. C’è una testimonianza precisa di due sorelle, Chaya e Gitta Kantoriwicz, allora bambine di 9 e 13 anni, che erano fuggite con la mamma da Berlino, mentre il padre era stato catturato, deportato in lager e assassinato. Le due sorelle, che ora vivono a Chicago, ricordano precisamente il giovane sacerdote con una macchina fotografica che un giorno sale alla baita dove avevano trovato nascondiglio, e qualche giorno dopo torna a consegnare le nuove carte di identità e vestiti per l’inverno. Andava di baita in baita a distribuire il denaro e gli aiuti che venivano procurati dalla Delasem, dava conforto e sostegno di ogni tipo, teneva i contatti e trasportava lettere tra le famiglie di ebrei rimaste a Nizza e quelle che erano fuggite al di qua delle Alpi, collaborava nell’organizzare le fughe verso la Svizzera o il Meridione. .
Lo aiutavano la buona sorte, un po’ di incoscienza, una capacità eccezionale di alpinista, la serenità, un’ironia delicata che mai lo abbandonava. Quando gli ricordavamo che si era comportato con coraggio eccezionale e con grande umanità, lui rispondeva sempre ringraziando il Signore che gli aveva dato la forza – diceva – di comportarsi secondo l’insegnamento evangelico di aiutare il prossimo.
Ricordava che con i suoi confratelli aveva concordato di trasmettere messaggi segreti, e l’ingenuo segreto consisteva nello scrivere testi con parole in piemontese ma usando caratteri greci: nelle vallate non c’erano molte persone che avessero studiato il greco, e i tedeschi non conoscevano il piemontese. Ricordava sorridendo che quando le camicie nere l’avevano catturato e lo bastonavano, tra sé e sé si compiaceva di avere la testa ben dura, come diceva sempre, sgridandolo, il suo maestro delle elementari. Alle camicie nere che lo torturavano chiedendogli urlando se aveva aiutato degli ebrei, ricordava la parabola del Buon Samaritano: i suoi maestri gli avevano insegnato ad amare il prossimo, non a chiedere la carta di identità.
Se qualcuno è in pericolo di vita, se qualcuno ha fame, non c’è da chiedere la carta di identità: il diritto di vivere e il bisogno di aiuto costituiscono il suo documento.
L’azione di Don Brondello contribuì allora a salvare la vita di Chaya, di Gitta e di altri innocenti braccati dai nazisti.
Ma Don Brondello fece qualcosa di ancora più grande.
Nell’ottobre del 1943 un inviato della Delasem, nel consegnargli denaro e provviste, lo pregò di ricordare alle famiglie di ebrei disperse nelle vallate che qualche giorno dopo sarebbe stato Yom Kippur. E Don Brondello rischiò di persona, girando in quelle giornate di inizio ottobre, di baita in baita, sfidando le pattuglie tedesche, perché persone a lui sconosciute, che venivano da nazioni lontane, che parlavano un’altra lingua, che professavano un’altra religione, potessero celebrare le loro feste.
Il suo comportamento di umanità e di rispetto nei confronti di stranieri disperati costituisce per tutti noi, oggi, un esempio e un insegnamento, attualissimo.
Anche per questo La ringraziamo, Don Brondello.
Chassidè ummòt ha-olàm yesh lahem cheleq le-‘olàm ha-bbà
I pii delle nazioni del mondo hanno parte nel Mondo a Venire
(Tosseftà Sanhedrin 13; Maimonide, Hil. Teshuvah 3,5)

Beppe Segre, presidente Comunità ebraica di Torino

(18 febbraio 2015)