Periscopio – Lo Stato
In occasione di una tavola rotonda sul tema “Laicità e libertà di culto in Italia e Israele”, organizzata dal Progetto Kesher, svoltasi lunedì scorso nei locali della Comunità Ebraica di Milano – alla quale ringrazio molto per essere stato invitato -, ho avuto modo di tornare sul delicato tema – già affrontato su Pagine Ebraiche 24 dello scorso 26 novembre e sul mensile cartaceo di gennaio – della proposta di legge, presentata dal governo israeliano uscente, riguardo alla definizione del carattere ebraico dello Stato d’Israele: una norma voluta dal premier uscente e da parte della maggioranza di governo, ma contrastata, per diverse ragioni, da altre forze, in ragione, soprattutto, di quella che è stata ritenuta una non chiara definizione dei diritti delle minoranze e della costituzione democratica dello Stato.
La forte contrapposizione e il confronto anche aspro tra le diverse componenti politiche, com’è noto, hanno sempre caratterizzato la democrazia israeliana, e ne costituiscono certamente un elemento di forza: assoluta libertà di pensiero e di espressione, nessun timore reverenziale verso i potenti, rigorosa difesa dei diritti delle minoranze, comune convinzione che la politica abbia il suo spazio, e le istituzioni il loro, e che queste ultime – magistratura, esercito, forze dell’ordine, Corte Suprema ecc. – siano al servizio di tutti, anche del più isolato e debole dei cittadini. Queste le caratteristiche di fondo del sistema politico israeliano, faro alquanto isolato, sul piano della civiltà giuridica, e non solo nel Medio Oriente.
Come in tutte le democrazie, è fatale che il clima di contrapposizione e di divisione sembri accentuarsi in occasione delle competizioni elettorali, per poi cedere, dopo l’esito delle stesse, a un rinnovato sentimento di unità. Il governo eletto sarà il governo di tutti, non solo di coloro che lo hanno votato, ma anche dei suoi avversari. Così deve essere e così sarà anche stavolta.
Tutti – israeliani e stranieri, ebrei e gentili, amici e nemici – sanno benissimo che il governo d’Israele, qualsiasi governo, è chiamato a fronteggiare situazioni drammatiche e a prendere decisioni dal cui esito potrebbe determinarsi il destino della nazione e delle generazioni future. Ed è senz’altro bene, perciò, che la campagna elettorale sia fondata sulla più piena conoscenza dei vari problemi e delle diverse opzioni, in modo che le scelte siano il più possibile non solo libere, ma anche consapevoli.
Ciò detto – ho osservato nell’incontro di lunedì -, suscita una certa perplessità e qualche rammarico il fatto che la legislatura si sia interrotta proprio sul disaccordo intorno a una questione di tanta rilevanza. Argomenti così delicati e importanti, connessi non alle contingenti opzioni della politica, ma alla stessa descrizione della natura dello stato, dovrebbero essere messi al riparo dalla contesa politica, per salvaguardare quel terreno comune di valori e principi di fondo in cui tutti, senza eccezioni, dovrebbero riconoscersi. Evidentemente, si è agito frettolosamente, è un peccato che sia andata così e c’è da augurarsi che questo argomento non sia usato in modo divisivo nella campagna elettorale, in attesa di una più serena e attenta disamina nella nuova legislatura.
Come ho già scritto, la natura ebraica di Israele è qualcosa, semplicemente, che esiste, da sempre e per sempre, e che nessuna legge può né creare né eliminare. E se può essere necessario, per diversi motivi, stabilire cosa questa natura determini sul piano specifico, dal punto di vista giuridico, sarebbe sbagliato dare l’impressione che una legge possa, di per sé, avere valore costitutivo riguardo alla natura stessa dello Stato, che, ripeto, esiste indipendentemente da qualsiasi legge. È questa una delle più importanti conquiste del giusnaturalismo, come hanno insegnato, per esempio, i Padri Fondatori degli Stati Uniti d’America, che, nella Dichiarazione di Indipendenza, riconobbero che, nel riconoscere ai cittadini i loro inalienabili diritti alla libertà, all’uguaglianza e alla ricerca della felicità, non ‘creavano’ alcunché, ma semplicemente si riappropriavano di valori eterni e “selfevident”.
E tale documento era bene presente agli estensori della Dichiarazione di Indipendenza di Israele, che, semplicemente, riconobbero il diritto storico del popolo ebraico a vivere in pace e sicurezza sulla propria terra. E il giusnaturalismo è ben più antico del 1776 e del 1948, è nato con la stessa coscienza critica dell’uomo: Antigone disobbedisce a suo padre Creonte, e va incontro alla morte, per obbedire a una legge non scritta, considerata cogente e inderogabile, in contrasto con la legge scritta dello Stato, ma ad essa superiore.
Gli ebrei che, in fuga dall’Europa antisemita, scelgono di recarsi in Terra d’Israele, esercitano un diritto loro riconosciuto da una legge israeliana. Ma non ci vanno per gentile concessione di un Parlamento, sono ebrei e vanno a vivere nella patria degli ebrei, in forza di un loro inalienabile diritto naturale, che ha un’origine ben più antica della Legge del ritorno del 1950, come ben spiegò, nella sua autobiografia, David Ben Gurion, le cui parole non sarebbe male, per tutti, rileggere: “non è lo stato che conferisce agli ebrei della diaspora il diritto di ritornare. Questo diritto è più antico dello Stato d’Israele; di fatto, è questo diritto che creò lo stato”.
Francesco Lucrezi, storico
(25 febbraio 2015)