Ticketless – Le rane e il Cav
Grazie alla disponibilità del figlio Giuseppe (sono in stampa presso l’editore Aska) ho potuto vedere in anteprima le lettere che tra il 1940 e il 1941 Carlo Alberto Viterbo invia dal confino in Urbisaglia (Macerata). Si tratta di un unicum, questo carteggio, che, fra l’altro, chiarisce una categoria storiografica sfuggente, quella dell’antifascismo ebraico, su cui si è tornato a discutere qualche mese fa, rievocando gli arresti torinesi degli anni Trenta Antifascisti ebrei vengono detti indistintamente Leone Ginzburg, Vittorio Foa o Carlo Levi, ma per poterli definire tale si dovrebbe disporre di documenti simili a quelli che la corrispondenza di Viterbo confinato produce invece ad abundantiam. Uno spaccato di vita ebraica autentica e una distinzione netta rispetto ai laici, come si evince da una di queste lettere: “Durante la settimana, per un’ora al giorno, leggo e spiego qualcosa dal libro di preghiere e forse da domenica comincerò delle lezioni di ebraico. Non tutti assistono, ma la maggioranza. Ci sono, purtroppo, degli spiriti dissidenti, che si danno arie di liberi pensatori e non si accostano alle riunioni. Mi fanno pena, perché perdono un grande conforto. E doppiamente pena perché, essendo qui come ebrei, non conoscono e non amano quell’ebraismo per il quale soffrono. Sono più disorientati e disgraziati degli altri”.
Su Viterbo è già disponibile l’ottimo profilo tracciato nel penultimo numero della “Rassegna mensile di Israel” da Elisabeth Schächter. Molti lo ricordano soprattutto in quanto direttore di “Israel”. Quando arrivava il giornale per mia nonna era una festa: subito correva a leggere gli articoli di Cav. Ero incuriosito, avendo da poco imparato a leggere, dall’acronimo con cui si firmava (le prime tre lettere del mio cognome), ma non potevo capire che cosa procurasse tanta gioia a mia nonna. Era la civiltà dell’umanesimo ebraico, soprattutto toscano, sopravvissuto alla Shoah e ancora diffusissimo nell’Italia del dopoguerra. Lasciamo perdere i laici, che forse non esistono più: sono le scelte identitarie ebraiche attuali che si sono molto scostate da quel modello, non è detto sia un bene. In che senso umanesimo ebraico? Direi nella ricerca di una convergenza tra i valori della classicità e l’osservanza dei precetti. E’ la fortuna ebraica di Collodi e De Amicis che andrebbe studiata, o la ricezione del canto di Ulisse della Commedia. E’ straordinario, nel carteggio, come l’auto-rappresentazione più efficace del dialogo tra figlio e padre, il Babbino, sia cercata e trovata fuori della Scrittura, in una celebre favola di Esopo, quella della rana che, per evitare di morire annegata nella secchia di latte dove è caduta, si salva mettendosi in un movimento perpetuo che alla fine trasforma il latte in burro . Non dovrebbe scandalizzare nessuno apprendere che la lezione dei Maestri possa essere ogni tanto ravvivata dalla saggezza della classicità greco-romana:“Ti ricordi l’aneddoto della rana che cadde nel secchio del latte? Anche noi dobbiamo agitarsi finché non si possa assidersi quieti sulla palla di burro”.
Alberto Cavaglion
(11 marzo 2015)