Israele – Un sistema elettorale da cambiare
A prescindere da come andranno le imminenti elezioni in Israele (si vota il 17 marzo), una cosa è sicura, nessuno ne uscirà veramente vincitore. È vero che le proiezioni danno in vantaggio l’Unione sionista, la compagine che unisce la sinistra laburista ai centristi di Hatnua, ma 25 seggi sono ben lontani dai 61 necessari per avere la maggioranza alla Knesset e per formare una coalizione di governo. Il presidente israeliano Reuven Rivlin ha già avvisato i contendenti: non affiderò necessariamente le chiavi di un governo alla formazione che otterrà più voti, ha sottolineato il presidente, ma a quella che riuscirà a presentare una maggioranza stabile. E la stabilità, complice un sistema elettorale che porta alla parcellizzazione del voto, non è la caratteristica degli ultimi governi israeliani. Negli ultimi vent’anni quasi ogni due anni gli israeliani sono tornati alle urne e il rischio, come sottolineava su queste pagine Sergio Della Pergola, demografo e autorevole analista della politica israeliana, è che il problema si riproponga anche questa volta.
Per evitare l’ennesima formazione di un governo instabile, Della Pergola propone una riforma del sistema elettorale, definito dall’illustre demografo anacronistico. Il prossimo 17 marzo gli israeliani voteranno con il metodo proporzionale puro, con una soglia di sbarramento per i partiti del 3,25 per cento (soglia aumentata recentemente da una riforma elettorale – prima si attestava al 2 per cento – e che, una volta raggiunta, garantisce ai partiti almeno quattro seggi alla Knesset), con un collegio unico nazionale (vi è una sola circoscrizione elettorale che comprende l’intero territorio dello Stato di Israele) e con la presentazione di liste bloccate (elenco dei candidati di un partito il cui ordine non può essere modificato, quindi in sede di elezione l’elettore non può effettuare una preferenza su uno dei nomi presenti in lista). Su quest’ultimo punto si ricorderanno le polemiche in Italia rispetto alla legge elettorale proposta dal governo, l’Italicum, che vorrebbe abbandonarle. In Israele molti partiti prevedono le primarie per decidere le posizioni dei candidati in lista e per dare agli elettori la possibilità di esprimere una forma di preferenza.
In ogni caso il problema è quel proporzionale puro: basta superare il 3,25 per cento per avere quattro seggi in parlamento. Alle prossime elezioni saranno, stando alle proiezioni, undici i partiti al governo. Per dirla con le parole di Della Pergola, “una Knesset che rappresenta l’affascinante sociologia israeliana ma è totalmente incapace di gestire gli affari del paese”. Al governo non andrà un partito forte di una larga maggioranza ma una coalizione formata da tante identità, spesso se non in conflitto almeno in contraddizione tra loro, divise nei diversi interessi che rappresentano. C’è chi però sostiene questo sistema proprio perché fortemente rappresentativo della tante anime che compongono Israele tra cui il saggista Haim Watzman sul Forward e il giornalista del Jerusalem Post Brian Blum. Ma siamo sicuri che questo sistema sia veramente rappresentativo degli interessi dell’elettorato? Se lo chiede Jordan Magil sul Times of Israel, ponendo l’accento sul problema del collegio unico (già criticato da Della Pergola ieri). “Immagine cento israeliani aventi diritto di voto che vivono tutti in una cittadina. Questi vicini – scrive Magil – possono votare per uno qualsiasi dei tanti partiti. Molti di questi partiti potranno vincere grazie a questi voti ma, nonostante la vicinanza (geografica) degli elettori, nessun politico rappresenterà il loro villaggio come un’unità. Se gli abitanti della cittadina ad esempio hanno bisogno di nuove infrastrutture, non avranno nessun membro della Knesset a cui chiedere aiuto. Il voto di ciascun abitante è diluito nell’oblio. Ora allargate questa situazione a tutto lo Stato – continua Magil – Con poche eccezioni, come gli ultraortodossi o coloro che abitano oltre la Linea verde, la maggior parte degli elettori israeliani non ha nessuna connessione con chi ha aiutato a vincere le elezioni. Per i politici, gli elettori sono mere astrazioni. Astrazioni senza potere”. Una soluzione a questa disconnessione elettore-eletto la proponeva proprio il professor Della Pergola: “il passaggio a elezioni secondo distretti elettorali. Questo comporta la divisione del paese in 120 distretti, tanti quanti sono i deputati alla Knesset, – spiegava il demografo – e l’elezione di un deputato in ogni distretto. I distretti potrebbero essere stabiliti dalla Commissione elettorale centrale, sotto il controllo vigile della Corte Suprema, sulla base di aree che comprendano la superficie contigua minima necessaria per raggiungere la quota dovuta di elettori, ossia un centoventesimo delle persone iscritte nelle liste elettorali. È possibile adottare un sistema a un turno, come negli Stati Uniti e nel Regno Unito, o nel nostro caso meglio a due turni, come in Francia”. In questo modo si accenderebbero in ciascun distretto delle sfide elettorali basate su una diretta rispondenza degli eletti, o di chi vuole esserlo, e i propri elettori. “Ad esempio – rifletteva ancora Della Pergola – nel distretto Giudea-Sud il signor Baruch Marzel di Kiryat Arba (candidato di Yahad) si misurerà con la signora Orit Struck di Hebron (candidata di Bayt Yehudi), e dunque con il nuovo sistema uno solo dei due potrà essere eletto mentre con il sistema attuale entrambi lo saranno creando un’ingiusta sovra-rappresentazione di un settore estremamente minoritario del pubblico”.
Per attuare tutto ciò sarà però necessario che i partiti sacrifichino una parte dei propri interessi e approvino una riforma strutturale del sistema elettorale. Ma di questo se ne riparlerà dopo il 17 marzo.
Daniel Reichel
(13 marzo 2015)