Danni irreparabili
La violenza paga. Spesso vorremmo illuderci che non sia così, e che, anzi, di fronte a crimini efferati ci sarà un risveglio, una presa di coscienza collettiva, e che tutti si uniranno, anche superando barriere ideologiche profonde, per esprimere il loro rifiuto. In effetti questo quasi sempre accade, ma non impedisce che i criminali abbiano raggiunto almeno in parte i propri scopi, per quanto tutti concordino nel giudicarli repellenti: certo nei prossimi tempi il numero di turisti in Tunisia calerà drasticamente, certo gli ebrei europei sono spaventati e molti hanno preso in considerazione l’ipotesi di emigrare. È proprio quello che i terroristi volevano.
L’uccisione di un essere umano, nella sua unicità e specificità, è sempre un danno irreparabile, che nessuna solidarietà ai parenti della vittima, nessun impegno a tener vivo il suo ricordo potranno mai cancellare. È vero per tutti i genocidi, è vero per la Shoah (forse non sempre ci rendiamo pienamente conto dell’impoverimento anche culturale che ha determinato nel popolo ebraico), è vero per gli attentati.
Anche le uccisioni di singole personalità sono un danno irreparabile. Non per niente l’ebraismo attribuisce enorme importanza alla sacralità della vita umana. Spesso si cita la frase del Talmud secondo cui chi salva una vita è come se salvasse il mondo intero, meno frequentemente si riflette sulla frase precedente, secondo cui chi distrugge una vita è come se avesse distrutto il mondo intero.
Pensando ai grandi personaggi assassinati non riesco a sottrarmi al gioco dei “se”, a immaginare come sarebbe cambiata la storia se questo o quell’altro leader avesse potuto influenzare ancora per altri dieci o vent’anni il destino del proprio Paese. Come sarebbe stata l’India degli anni ’50 e ’60 con Gandhi? E la cultura italiana degli anni ’30 e ’40 con Gobetti? Cosa avrebbe fatto Martin Luther King negli anni ’70 e ’80?
A vent’anni dall’assassinio di Rabin, proprio nei giorni in cui un leader israeliano trionfa grazie al dichiarato rifiuto del suo progetto (se non erro mai così esplicito da parte di un candidato premier proprio alla vigilia delle elezioni), non posso fare a meno di pensare che in fin dei conti l’assassino di Rabin è riuscito ad ottenere esattamente ciò che voleva e che oggi più che mai sarà convinto di aver fatto la cosa giusta. E questo – al di là di qualunque considerazione sul presente e sul futuro di Israele – mi lascia comunque un po’ di amaro in bocca.
Anna Segre
(20 marzo 2015)