Qui Trieste – Pagine Ebraiche Balkan, braci d’Europa
Non conosco luogo migliore, per abbracciare l’Europa, della terrazza in cima al vecchio Hotel Balkan di Trieste. Dal tetto dell’edificio che le etnie slave del litorale vollero come primo centro culturale, sociale ed economico d’Europa e fecero realizzare da maestri dell’architettura viennese e della Secessione come Max Fabiani e Kolo Moser, si capisce come non sia una coincidenza se oggi lì ha casa la fucina di tutti i linguaggi e di ogni loro possibile trasposizione, la sede della scuola traduttori e interpreti dell’Università giuliana, il primo e più prestigioso centro accademico del settore. E non è forse un caso nemmeno che proprio la redazione giornalistica dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane si sia data appuntamento sulla terrazza del Balkan per definire la convenzione che vedrà la collaborazione con la prestigiosa scuola universitaria, in appoggio al nostro notiziario internazionale Pagine Ebraiche International Edition. Da lassù si comprende meglio il grande scrittore triestino di lingua slovena Boris Pahor quando afferma che la Storia si dà abitualmente appuntamento in questa piazza di scarso pregio architettonico. Lì hanno preso corpo l’Irredentismo, i nazionalismi, il fascismo, l’antifascismo, la Resistenza, le deportazioni, la Liberazione, la Cortina di ferro, la Guerra fredda, la speranza della nuova Europa. Lì, a pochi passi dall’immenso rosone della sinagoga, il Consiglio della Regione autonoma Friuli Venezia Giulia sventola oggi la bandiera del Patriarcato di Aquileia e proclama il proprio nome declinando le quattro radici cardinali, le quattro lingue, latine, ladine, germaniche e slave parlate dalle proprie genti.
Esiste un continente da Lisbona a Trieste e un altro da Trieste a Vladivostok. La faglia che segna la frontiera passa proprio sulla vecchia piazza della caserma, che l’Italia ribattezzò piazza Oberdan in omaggio al martire del primo irredentismo in questo luogo incarcerato e giustiziato. Il Balkan, dato alla fiamme nell’estate del 1920 dai fascisti subito inoculati dall’Italia nella polveriera etnica giuliana, fu secondo Renzo De Felice il debutto dello squadrismo, l’atto iniziale di tutti gli orrori che seguirono, dal primo tribunale speciale del fascismo, che già nel 1930 mandava a morte quattro giovanissimi oppositori, all’ordine di insurrezione del Cnl lanciato, su questa piazza della città più ferocemente laica d’Europa, da un prete partigiano. “Nel tragico spettacolo di quel pomeriggio – racconta dell’incendio del Balkan lo scrittore Giani Stuparich, medaglia d’oro e padre spirituale dell’irredentismo liberale – io avvertii qualcosa di immane: i limiti di quella piazza mi si allargarono in una visione funesta di crolli e di rovine, come se qualcosa di assai più feroce della stessa guerra passata minacciasse le fondamenta della nostra civiltà, e per lungo tempo non seppi sottrarre l’immaginazione alla vista di quelle creature innocenti (erano sposi stranieri di passaggio a Trieste e ben lontani da ogni odio nazionale) che, sorpresi nell’intimità dalla rapida violenza dell’incendio, s’affacciano al balcone implorando aiuto e poi, quasi impazziti, si gettano giù sul selciato. Mi parve che dietro la loro vana invocazione e il gesto atroce di impotenza degli spettatori si profilasse una schiera di milioni di vittime innocenti”.
Ferita a cielo aperto della Storia, oggi la piazza è luogo d’incontro, teatro spensierato dei primi amori, festoso capolinea della funicolare che alla prima curva subito affronta l’impervio stacco dal mare al Carso. Ma le braci che arsero allora non sono mai sopite.
“Dovette essere intorno all’epoca dell’incendio del Balkan – confida ancora lo scrittore – ch’io sfogai il mio animo con un ragazzo, o quasi ragazzo, ch’era venuto a trovarmi da Torino. L’avevo portato a colazione con me in una di quelle piccole trattorie triestine, che hanno un po’ della rozza semplicità della barca, odorano di buon pesce e di vino forte; e, a voltarsi verso la porta, si vede sempre un pezzo di mare. Mentre parlavo, mi guardava con i suoi occhi limpidissimi nella faccia scarna, sotto una zazzera di capelli biondi molto ricciuti. Mi lasciava parlare, ma quando mi rispondeva, il suo discorso, pur restando al segno, pareva provenisse da tutt’altro tormento, anzi meglio che da un tormento da una visione più rigida e cristallina delle cose; tale visione gli dava una calma singolare in contrasto con le sue aspirazioni immediate, per cui tutto era da riformare o, dopo il crollo necessario, da ricostruire ex novo”. Quel ragazzo che non aveva allora ancora vent’anni, ma solo poco margine per lanciare contro il fascismo la sua Rivoluzione liberale, era Piero Gobetti. “Quando gli chiesi – conclude Stuparich – se gli fosse piaciuta Trieste, mi rispose con un sorriso sottilmente ironico, come a compiangere l’agio con cui accarezzavo simili sentimenti, quando c’era tanta fretta di tener dietro a ben altre necessità”. Lungo gli accidentati, interminabili binari trasversali fra Torino e Trieste, gli interrogativi di allora, l’urgenza di opporsi al male, l’esaltazione della città piazza d’incontro di tutte le minoranze e la strenua urgenza di ricostruire l’Europa delle genti, attendono ancora risposta.
Guido Vitale, Pagine Ebraiche Marzo 2015
(20 marzo 2015)