chametz…

Nell’indicarci le modalità dei sacrifici da compiere nel Santuario, la Torah (Vaykrà, 2; 17) ci vieta di accompagnare le offerte con il chametz, sostanze lievitate.
Colui che porta un sacrificio deve identificarsi con la matzah, farina non lievitata, simbolo di purezza e di umiltà contrapposta al chametz che, viceversa, rappresenta arroganza e superbia. A questa disposizione vi sono tuttavia due clamorose eccezioni: il sacrificio di ringraziamento – sostituito oggi senza un Santuario operante dalla Birkàt ha Gomèl (lo scampato pericolo) – e l’offerta delle primizie nella festa di Shavuòt, che prevedono entrambe la compresenza del chametz. Come se in queste due situazioni potessimo consentirci un po’ di inorgoglimento, rappresentato dal chametz, per essere scampati a un pericolo e per ricevere la Torah. Ma Shavuòt è anche la festa che viene immediatamente dopo Pesach nella quale ci è consentito di portare il nostro chametz, da poco bandito, e comunque solo dopo che siamo stati in grado di introiettare e di gioire della nostra matzah. In verità la matzah non è altro che la dimensione embrionale del chametz, e ogni chametz è una potenziale matzah che ha indugiato troppo. Una differenza che, come il nostro ebraismo, si misura tra impegno operoso e disimpegno passivo. Pesach è il tempo più adatto per la solerzia.

Roberto Della Rocca, rabbino

(24 marzo 2015)