Demone e martire?

vercelliDunque, il giudizio sul concreto operato di Giovanni Palatucci è destinato a rimanere in sospeso. Forse per molto del tempo a venire. Evidentemente, va aggiunto, non per assenza di dati (spesso, tuttavia, contraddittori o comunque di non facile messa in una sequenza ordinata e, quindi, come tale pronta ad offrirsi immediatamente nella sua presunta qualità di strumento di giudizio morale, come invece spesso una diffusa opinione, molto ingenua, sul processo storiografico intenderebbe ottenere, quasi che lo storico sia da subito anche giudice del passato) ma per la difficoltà di dare ad essi una sintesi condivisa. La contrapposizione tra sensibilità (e suscettibilità) pubbliche non gioca a favore di tale obiettivo, ad onore del vero. Segno che la storia e le memorie non sono un campo di “pacificazione”, come certa vulgata di grana grossa, più interessata a seppellire che non a fare emergere, intenderebbe ancora accreditare, bensì luoghi simbolici, mentali e culturali dove si innescano di nuovo contrapposizioni dialettiche. Di per sé, la cosa non deve sconcertare oltre misura. Fare storia non vuole dire solo rendere intelligibili gli eventi e rimettere in ordine i fatti ma dare ad essi una voce corale, possibilmente condivisibile. Un aspetto, quest’ultimo, che implica il riscontro che le voci coesistenti possano essere anche molte e tra di loro a tratti discordanti. Possibilmente però non cacofoniche. Non di meno, va aggiunto, non è (falso) ecumenismo, il riconoscere tutto ciò. Evitando tuttavia di scambiare il relativismo per pluralismo. Perché altrimenti tutto deraglia, rendendo intercambiabili le versioni sul passato, sostituibili a piacimento e quindi destinate ad annullarsi vicendevolmente. Semmai è consapevolezza che le divisioni di ieri riproducevano, già allora, conflitti di interessi e di ruoli che sono ben lungi dall’essersi del tutto risolti nell’oggi. In tutta franchezza, quindi, la notizia dei giorni scorsi, con la quale si rendeva noto al pubblico che la commissione promossa dall’Unione non era riuscita a formulare un giudizio unanime o sufficientemente condiviso dai suoi membri, non credo possa o debba a sua volta sorprenderci oltre misura.
Sugli interna corporis acta ci si potrà pronunciare solo nel caso in cui (o quando) essi vengano resi disponibili nella loro interezza. Rimane il fatto che la questione dell’effettivo operato, così come dei suoi moventi, del vice commissario aggiunto di pubblica sicurezza, già reggente della Questura di Fiume – città strategica, in quei mesi tragici, nel processo di disintegrazione dell’ebraismo balcanico e italiano, nonché uno degli epicentri dei percorsi di barbarica repressione nazista delle resistenze jugoslave (il plurale, in questo come in altri casi, è d’obbligo) – posta nei termini di un secco confronto tra innocentisti e colpevolisti, è oramai incapace di restituirci la problematicità della questione della memoria di una persona che si trovò ad operare in quei luoghi con ruoli istituzionali tanto più complessi e faticosi dal momento stesso che la legalità e la legittimità erano state messe in discussione dagli occupanti.
L’operato controverso del protagonista, deceduto in prigionia a Dachau il 10 febbraio 1945, al netto del contesto in cui si manifestò, viene invece ora consegnato ad una sorta di trasfigurazione, il cui oggetto reale non è ciò che egli concretamente fu e fece ma l’investimento simbolico che istituzioni, succedutegli nel corso del tempo, a guerra oramai finita, hanno fatto, in un senso o nell’altro, riguardo alla simbolizzazione sacralizzante (e poi, in successione, smitizzante, se non “iconoclastica”) della sua persona. Non di meno, il parallelo atteggiamento che ha portato, in questi ultimi anni, ad una contrapposizione, a tratti astiosa, comunque sempre aggressiva, tra chi ne fa apologia e chi, invece, ne capovolge il segno morale, è divenuto un transito varcate le cui soglie nulla può più essere sottratto alla logica della fazionalizzazione preventiva. In altre parole: ci si è spinti troppo in avanti per potere accettare una riconsiderazione critica, qualunque essa sia. Ed anche per ciò, c’è chi ha rincarato la dose, avventurandosi in operazioni opposte ma, proprio per questo, simmetriche nella loro inversione di segno. Poiché il rapporto tra l’essere demone o martire, tra vile opportunista o abile salvatore di corpi e anime, può a volte rivelarsi solo un sottile velo, quello che divide il male dal bene, tanto più nei momenti in cui gli ordini costituiti sono sconvolti da bruschi mutamenti. Come avvenne nei tempi in cui il giovane funzionario si trovò ad operare. La qual cosa, già di per sé, richiederebbe rispetto supplementare. Che viene a mancare, invece, quando al racconto della complessità delle scelte si sostituisce una sorta di ansia da prestazione, un’aspettativa prescrittiva: l'”avrebbe dovuto fare”, nel qual caso, rischia di divenire il perentorio bisogno di ottenere un riscontro rispetto alle proprie tesi, ossia il rimando al “l’ha sicuramente fatto”.
Palatucci, per l’appunto, è divenuto una specie di “oggetto”, sospeso tra l’essere un “totem” da abbattere per certuni e un “tabù” da difendere per altri ancora. Ad oltranza, nell’uno come nell’altro caso. Ne dà conto il modo in cui una parte della stampa quotidiana ha preso parte, nel corso del tempo, alla costruzione di un “discorso pubblico” sulla sua figura. Il ricordo di quella persona – indipendentemente dalle funzioni che le sono stata attribuite dallo stratificarsi di opinioni, testimonianze, documenti, riscontri ma anche percezioni e opinioni e quant’altro (segnatamente, si rammenti che nessuna di queste tante cose parla “da sé”, essendo semmai parte di un reticolo di elementi che va invece ricostruito, per poi procedere alla contestualizzazione di certe condotte, variamente attribuite al protagonista, che era operativo in tempi tanto feroci quanto moralmente opachi e in luoghi di intersecazione tra violenze inenarrabili) -, diventa così un campo di battaglia per moventi, ragioni, interessi che riproducono antichi conflitti e ingenerano nuove tensioni non per quello che sarebbe stato per davvero in quel tempo ma per quello che ci si aspetta che sia stato per l’oggi. La questione potrebbe a questo punto anche risolversi da sé, con tuttavia il suo inesorabile strascico di polemiche (ed in qualche caso anche di contumelie), se non fosse per il fatto che è, nella sua dinamica, la rappresentazione paradigmatica di come la figura del «giusto», al netto da qualsiasi ambiguità, non possa prestarsi, in questo come in tutti gli altri casi, ad operazioni di taglio politico, pubblicistico e di altro genere senza che ne subisca una torsione ideologica.
C’è un problema di fondo, infatti, che la sofferta vicenda della ricezione della figura di Giovanni Palatucci rivela, ed è quella che rinvia al “buon uso del ricordo dei giusti”. Un capitolo a sé stante della più ampia partita del rapporto con il passato. Poiché troppo spesso lo straordinario spessore di uomini e donne che seppero distinguere da soli il bene dal male, adoperandosi per il primo quando tutto e tutti pregiudicavano a favore del secondo, può divenire una sorta di lavacro per istituzioni, gruppi di interesse e coalizioni di potere che, allora, voltarono lo sguardo verso altri orizzonti, simulando una distanza che da indifferenza si fece poi omissione. Nessun gratuito e compiaciuto «J’accuse!», sia ben chiaro. Troppo facile ergersi a implacabili giudici del passato, soprattutto quando questo vide tra i protagonisti figure dai tratti difficili da distinguere con nitidezza, allora ed adesso. Non è questo che ci compete, quanto meno se facciamo la professione di storici. Ma la sanzione verso gli usi impropri della storia è dovuta, a prescindere. Viene da aggiungere, se non si fosse sovrastati dall’ossessività e dalla petulanza di chi tira sempre e comunque le cose dalla propria parte, che è forse ora di lasciare riposare i morti. Non li resusciteremo in alcun modo. Almeno questo ci è chiaro. Anche per Giovanni Palatucci, deceduto comunque molto, troppo giovane, nella tragica solitudine di un Lager nazista.

Claudio Vercelli

(29 marzo 2015)