Pesach 5775 – Un anno da mettere a frutto
La Terra d’Israele è chiamata in ebraico Eretz ha-Qòdesh, perché rappresenta il tramite per la diffusione della Presenza Divina nel mondo: “poiché H. ha prescelto Sion, l’ha ambita come Sua residenza“ (Tehillim 132, 13). Esiste nella Halakhah il dovere di “onorare la Terra d’Israel“ (lachloq kavòd le-Eretz Israel: Yer. Meghillah 1,1). Per quanto concerne le Berakhot da recitarsi sui vari cibi, per esempio, è prevista una benedizione speciale dopo aver mangiato i sette frutti “di cui la Terra d’Israele si vanta“, ovvero il grano, l’orzo, l’uva (e il vino), il fico, la melagrana, l’oliva e il dattero. In questo testo noi esprimiamo l’auspicio che H. “ci faccia compiere la ‘Aliyah nella Terra, affinché possiamo mangiare i suoi frutti e saziarci delle sue bontà“. I nostri decisori commentano che i prodotti della Terra d’Israele assorbono essi stessi della Qedushah della terra e dunque “mangiando i suoi frutti ci nutriamo della santità della Shekhinah“ (Bayit Chadash a Tur, Orach Chayim 202; per completezza va aggiunto che il testo della Berakhah resta immutato anche se i sette frutti da noi consumati avevano altra provenienza; l’unica differenza sta nell’ultima parola: se infatti mangiamo frutti israeliani diciamo alla fine “‘al ha-aretz we-‘al peroteyha“ –per la Terra e i suoi frutti- invece del generico “we-‘al ha-perot“; cfr. Berakhot 44a).
È buon uso in molte nostre famiglie mettere in tavola frutti d’Israele particolarmente in occasione delle festività. Senonché il corrente anno ebraico 5775 è un anno sabbatico (shenàt shemittah): in esso sono in vigore restrizioni halakhiche per quanto riguarda i lavori e i prodotti agricoli in Eretz Israel, come prescrive la Torah in Wayqrà, cap. 25. Come regolarsi? Contrariamente a quanto molti credono, i frutti dell’Anno Sabbatico non sono affatto proibiti, ma sono invece dotati di una qedushah particolare. La Torah dice infatti: “E lo Shabbat della terra sarà per voi affinché ve ne cibiate (le-okhlah)” (v. 6) e alcuni interpretano questo versetto come una vera e propria mitzwah (Nachmanide). Essendo oggi in vigore le regole dell’anno sabbatico solo per disposizione rabbinica, secondo la maggior parte dei decisori è lecito consumare questi frutti persino se fossero il risultato di una coltivazione proibita (Mishnah Shevi’it 4,2 a nome di Bet Hillel). Nello stesso tempo, la Torah vuole insegnarci che la qedushah di questi frutti esige da noi che ci asteniamo dal farne commercio (le-okhlah we-lò li-skhorah) e dal danneggiarli o sprecarne in alcun modo (le-okhlah we-lò le-hefsèd – Mishnah Shevi’it 8, 1 segg.; ‘Avodah Zarah 62a).
Ci sono diverse modalità per evitare di infrangere le numerose restrizioni prescritte durante l’anno sabbatico in Eretz Israel. Alcuni ricorrono all’escamotage di “vendere” i loro terreni a non-ebrei in modo tale che le regole non vi abbiano vigore (hettèr mekhirah): per questi frutti non c’è alcun limite né di commercio, né di consumo. Per altri, più rigorosi, si istituisce l’Otzar Bet Din (lett. “deposito del Tribunale Rabbinico”). Tramite un documento scritto gli agricoltori che osservano l’anno sabbatico mettono a disposizione del rabbinato i loro depositi di frutta con l’intesa di rimanere come lavoranti al servizio del rabbinato stesso. Il ricavato dagli acquirenti non sarà a titolo di pagamento della frutta medesima, bensì a ricompensa del lavoro fisico eseguito dai lavoranti.
Questi frutti sono dotati di qedushat shevi’it (“sacralità del Settimo Anno”) e restano soggetti a tutte le restrizioni connesse anche una volta terminato l’anno sabbatico. Benché a priori non sia permesso portare questi frutti fuori da Israel (Mishnah Shevi’it 6,15; Maimonide, Hil. Shemittah we-Yovèl 5,13), una volta avvenuta l’esportazione essi possono essere mangiati, mantenendo la loro qedushah.
Tuttavia essi devono essere trattati con cura particolare. Si mangiano stando attenti a non buttarne gli scarti direttamente in pattumiera: questi dovranno essere avvolti preventivamente in un sacchetto di plastica. Se dunque ci imbattiamo in un frutto israeliano possiamo acquistarlo e consumarlo? Secondo molti dobbiamo farlo. Incoraggiamo la trasgressione? Al contrario: recuperiamo frutti altrimenti persi comunque. Del resto sarebbe imbarazzante rivolgerci al nostro fruttivendolo di fiducia che da anni ci procura la frutta da Israele e dirgli: “Ora preferisco i datteri di un altro paese!”. L’unico accorgimento, se adoperiamo per il Seder vino israeliano con la scritta Otzar Bet Din (cosa che mi è capitata di recente con una bottiglia del 2008 distribuita in Italia), non possiamo versarlo leggendo le Dieci Piaghe, perché queste sia pur poche gocce sono destinate ad essere buttate.
Anche nel caso dei cedri di Sukkòt, per certi aspetti il fatto che abbiano qedushat shevi’it costituisce hiddùr (un elemento in più alla Mitzwah) e si esce d’obbligo con essi dalla mitzwah anche fuori da Israel (Chazòn Ish 10,6), trattandoli con delicatezza per non provocare un danno (Sukkah 35b). Terminata la festa possono essere dedicati come buon profumo per la havdalah del sabato sera (in base al principio: “dal momento che sono stati impiegati per una mitzwah, impieghiamoli per un’altra mitzwah”) finché non si consumano naturalmente. Dopo che avranno mutato aspetto potranno essere gettati. Chi invece non intende impiegarli in nessun modo al termine di Sukkòt farà bene a consegnarli al proprio rabbino.
Rav Alberto Moshé Somekh, Pagine Ebraiche aprile 2015
(2 aprile 2015)