25 aprile di fiele?

vercelliQualche rimando veloce, ma a ben guardare di antica radice, alla ventilata astensione dell’Aned di Roma nel merito della manifestazione per il 25 aprile. Il primo rinvia al fatto che a dire di no non è una componente ebraica (non importa nel qual caso quale avrebbe potuto essere), bensì l’Associazione che raccoglie tutti gli ex deportati. Il peso morale e civile di questa scelta, al di là della consistenza associativa, è netto, a prescindere da qualsiasi ulteriore opinione di merito. Seconda valutazione di principio: il rischio che le ricorrenze repubblicane, a partire proprio dalla festa della Liberazione, si trasformino in un campo di battaglia su questioni che poco o nulla hanno a che fare con ciò che si ricorda, è oramai un dato di fatto. Non di meno, la tentazione altrettanto diffusa, è che la risposta a tale orientamento sia quella di curvare in senso ancora più ritualistico di quanto già non sia, l’intero impianto di quelle che, in tal modo, si ridurrebbero a «celebrazioni», «pellegrinaggi», «omaggi» e così via, fingendo che possano ancora assolvere ad una pedagogia civile che, invece, spesso non riescono più ad animare. Nobili attività ma, in tutta sincerità, distanti dalle domande del presente. Peraltro, cosa vuol dire, oggi, parlare di «liberazione»? Fino a che punto è lecito rinviare solo al passato? Poiché il richiamo ai fatti correnti è per molti pressoché immediato. Ma il modo in cui lo si fa costituisce la differenza. Che in alcuni ambiti il conflitto israelo-palestinese sia divenuta una sorta di ossessione identitaria esclusivista, la dice lunga sulla difficoltà di coglierne non solo la sua natura ma anche la necessità, oramai imprescindibile, che per essere negoziato sia “liberato” da indebite bulimie. Quel confronto contiene più storia di quanto ne possa consumare. E il rinvio ossessivo ad esso è direttamente proporzionale all’incapacità, o alla mancanza di volontà, di affrontarlo politicamente. Terzo richiamo: cos’è oggi l’Anpi? Non è domanda polemica, anche perché le risposte sono di per sé molte e articolate. Rimane il fatto che sempre più spesso si registrano due identità concorrenti: quella più tradizionalista, ancorata alle celebrazioni delle ricorrenze e alla memoria del partigianato, nella quale spesso confluisce personale politico dei vecchi partiti della sinistra. E quella movimentista, in cui hanno trovato casa, per così dire, esponenti e rappresentanti di una sinistra assai più sbilanciata su molte questioni, alla ricerca, attraverso un “antifascismo militante”, di un qualche rilancio del proprio ruolo pubblico. In questo segmento, l’antisionismo è molto spesso un convincimento ossidato, a rischio di divenire una sorta di articolo di fede. Laddove è l’intera impresa che ha portato alla costituzione d’Israele ad essere considerata un atto storicamente abusivo. Il cristallizzarsi di tali posizioni, il loro esasperarsi, sta maturando in atteggiamenti che, dietro la patina della contrapposizione politica, in realtà implicano il muro contro muro. Piaccia o meno. Con manifestazioni a tratti isteriche o comunque aggressive. Ad oggetto, infatti, non è ciò che viene dichiarato come fondamentale (l’autodeterminazione palestinese) bensì la ricerca di un nemico contro il quale scagliarsi. A prescindere. Poiché il definirsi per ciò che non si vuole essere (spregiando la controparte sul piano morale), serve a ritagliarsi un’identità tanto ossificata, reificata quando “incorruttibile”. In sintonia con lo spirito dei fondamentalismi che, spesso, possono anche essere laici o comunque secolarizzati. Su questo scivolosissimo terreno identitario l’Anpi rischia di uscirne lacerata nel corso del tempo. Che al suo interno possa coltivare anime diverse è una risorsa. Ma in questione non è questo aspetto, bensì una divaricazione che rischia di non trovare più alcun mezzo di ricomposizione. Se i fatti dei giorni trascorsi possono diventare oggetto di riflessione, e di maturazione (tralasciando l’anodino richiamo alla necessità che l’Aned “ripensi alla sua scelta”, come se di ciò si trattasse e non di altro), allora non tutto il male sarà venuto per nuocere. Altrimenti ci si illuderà che ognuno possa andare per la sua strada, non comprendendo che è sempre la stessa per tutti, laddove però i passi degli uni pestano quelli degli altri, fino allo sfinimento delle parti in causa.

Claudio Vercelli

(7 aprile 2015)