Figli della Shoah: capire e raccontare le difficoltà di una generazione
Nel calendario ebraico si celebra domani Yom HaShoah, la giornata in ricordo delle vittime dello sterminio nazifascista. Tra i vari appuntamenti la proiezione, domani a Firenze, del documentario ‘I figli della Shoah’ di Cesare Israel Moscati con regia di Beppe Tufarulo.
L’evento, organizzato in collaborazione con il Dec UCEI, avrà luogo alle 21 presso la Comunità ebraica fiorentina con interventi dell’autore e di Gavriel Levi (Università La Sapienza di Roma). Riproponiamo nell’occasione l’intervista a Moscati pubblicata su Italia ebraica di dicembre
Le lacrime sul volto di molti spettatori, tre minuti ininterrotti di applausi, appuntamenti con nuove proiezioni immediatamente fissate in Italia e all’estero. Con ‘Viaggio nell’animo dei figli della Shoah’, protagonista in occasione dell’ultimo Festival del Cinema di Roma, Cesare Israel Moscati ha raccontato un pezzo di sé. Dall’Italia alla Francia a Israele: il documentario, prodotto da Global Vision e Rai Cinema e con regia di Giuseppe Tufarulo (la proiezione romana è stata patrocinata anche dal Centro di Cultura della Comunità ebraica), l’ha portato a confronto con esperienze e personalità diverse. Un viaggio insieme agli altri, un viaggio soprattutto interiore. Scavando in un passato difficile, tormentato, sofferto. Con una speranza: “Vorrei lasciare un messaggio a chi lo guarda: i figli della Shoah come me, pur affrontando ostacoli durissimi nel loro cammino, sono comunque riusciti ad emergere”
Israel, come è nato questo progetto?
Ho iniziato a lavorarci un paio di anni fa. Nel corso della sua realizzazione molto è venuto da sé. Ogni incontro si è rivelato innanzitutto terapeutico. Ciascuna persona esprimeva infatti il proprio dolore, scavava dentro se stessa, nel rapporto con i genitori, i figli, gli amici. Questa cosa mi ha profondamente toccato. Anche il mio è stato, e continua ad essere, un percorso arduo. La tua storia di dolore è disseminata tra Auschwitz e l’eccidio delle Fosse Ardeatine.
Come ti sei relazionato con questo passato?
La cosa più difficile è stata il silenzio assordante che mi ha avvolto fin dalla più tenera infanzia. Silenzio da cui è scaturita una nevrosi che mi ha portato, intorno ai 20 anni, ad entrare in analisi. È da quando sono piccolo, da quando vidi mia nonna piangere alle Fosse Ardeatine al grido. ‘Che vi hanno fatto, figli miei’, che ho perso la serenità. Una nipotina, che oggi ha 10 anni, mi ha dato la forza di affrontare questa situazione in una nuova forma. Sono tre‐quattro anni che ne parliamo. È stata lei a spronarmi ad incontrare gli studenti della scuola ebraica di Roma, la Vittorio Polacco. Ai giovani, che sono anche protagonisti del film, vorrei lasciare un messaggio di speranza: i figli della Shoah, nonostante tutto, sono comunque riusciti ad emergere. Ad affermarsi nel lavoro, nella vita, nei rapporti interpersonali e a garantire una continuità alle generazioni ebraiche. Loro ne sono la prova. La più bella.
Che sentimenti provavi alla loro età davanti a questi temi?
Mia madre è rimasta orfana a 9 anni. Di tutta la sua famiglia sono stati uccisi in trenta ed è tornato soltanto un cuginetto: Isacco Sermonetta. Mio padre ha avuto due fratelli ad Auschwitz e due alle Fosse Ardeatine. Quando ero bambino ho ricreato fantasticamente il loro dolore e davanti alle foto delle vittime di quell’abominio, davanti alle immagini degli zii Marco, Emanuele e Davide, tante volte mi sono trovato a raccontare gli alti e bassi della mia vita. A loro, gli zii mai conosciuti, ho parlato della scuola, delle partite a pallone, dei primi sentimenti amorosi. Ho creato una dimensione tutta mia. È stato e continua ad essere difficile. Oggi come allora. Ma questo film mi ha senz’altro aiutato ad elaborare.
Al termine della proiezione tutta la platea si è alzata in piedi e l’emozione ha colto nel segno. Cosa hai provato in quei momenti, cosa ha rappresentato per te quella serata?
Il coronamento di un sogno inseguito tutta una vita. Avevamo 18 ore di filmati ed è stato difficilissimo tagliare per dare un volto alle interviste e ai tanti incontri straordinari che ho visto scorrermi sotto gli occhi. Ma sono decisamente soddisfatto del risultato finale. L’emozione del Barberini è stata intensa, fortissima: con i miei genitori presenti, tra l’altro. Un ringraziamento, oltre alla Rai e alla Global Vision, lo voglio rivolgere in particolare al rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni: il suo sostegno è stato fondamentale. Con Rai Fiction ho adesso in piedi altri progetti tra cui una riflessione sui ghetti (‘I ghetti, un lutto mai elaborato’) e un racconto autobiografico (‘Il suono dello Shofar) per approfondire ulteriormente il mio percorso familiare.
Adam Smulevich, twitter @asmulevichmoked, da Italia Ebraica dicembre 2014
(15 aprile 2015)