Periscopio – Ebrei e parole

lucrezi Il libro “Gli ebrei e le parole. Alle radici dell’identità ebraica”, scritto congiuntamente da Amos Oz e sua figlia Fania Oz-Salzberger (storica di grande statura, docente presso l’Università di Haifa), recentemente pubblicato in Italia dalla Feltrinelli, offre un’analisi suggestiva, acuta e originale della vexata quaestio di cosa significhi, ieri e oggi, ‘essere ebreo’. Un’investigazione di ampio respiro, improntata a leggerezza, ironia e sense of humour, che è anche una sorta di storia universale degli ebrei, considerata dal particolare punto di vista del rapporto privilegiato del ‘popolo del Libro’ con la scrittura. Un rapporto che, secondo gli autori, rappresenterebbe la principale chiave interpretativa del controverso problema identitario: perché sarebbe proprio intorno a tale rapporto che tale identità, da sempre, si fonda, si costruisce, si trasforma e si pone in crisi, attraverso atti di fedeltà e conservazione, di innovazione e trasformazione, di ribellione e tradimento: ma che comunque si consumano, sempre, attraverso lettere, parole, libri. Perciò “non è questione di sassi, tribù, cromosomi. Non si ha da essere archeologi, antropologi o genetisti per tracciare e dare corpo al continuum ebraico. Non si ha da essere ebrei osservanti. Neanche ebrei. D’altro canto, neanche antisemiti. Di fatto, basta essere dei lettori”.
Atei dichiarati, gli autori considerano attraverso questo particolare angolo visuale anche la peculiare relazione del popolo ebraico con la figura dell’Altissimo, sempre tanto presente e incombente – anche nella sua presunta indifferenza, lontananza o assenza – nella storia degli uomini, e lo fanno con grande rispetto, ma senza comunque mai deviare dalla propria impostazione: la storia di Israele resta sempre e comunque una storia di parole, e “Dio è una di queste parole”.
Tra i tanti temi trattati nel libro, particolarmente interessanti mi sono parse le pagine dedicate al rapporto, così importante nella storia del pensiero rabbinico, tra maestro e discepolo, non meno centrale e significativo di quello padre-figlio: “la tradizione ebraica – notano gli autori – permette e incoraggia l’allievo a muoversi contro il maestro, a dissentire da lui, a dimostrare che si sbaglia. Fino a un certo punto. Questo è un messaggio freudiano, piuttosto raro nelle culture tradizionali. È anche una chiave d’accesso al rinnovamento intellettuale. Fino a un certo punto… perché la ribellione ha i suoi limiti. Non si può buttar via tutto il pacchetto – Dio, fede e Torah. In tal caso, si verrebbe ripudiati”. Almeno, così è stato per secoli. A partire dall’haskalah, molti figli del popolo ebraico hanno scelto di oltrepassare quel confine, e anche di “buttare via tutto il pacchetto”. E i semi dell’ebraismo, sparsi nel mondo dei gentili, hanno dato i noti, sorprendenti risultati che conosciamo. Sono ancora da considerare ebrei coloro che hanno superato il confine, spingendo la ribellione al di là del limite consentito? I due autori sembrano non dare alcuna importanza al problema, dal momento che al quesito “Chi è ebreo?” ritengono di poter rispondere: “Chiunque si trovi ad affrontare la domanda ‘Chi è un ebreo?'”. Perché “nella tradizione ebraica ogni lettore è un correttore di bozze, ogni allievo un critico e ogni autore, compreso quello dell’Universo, formula quante più possibili domande”.
Un libro stimolante e affascinante, che permette, insieme, di apprendere, riflettere e sorridere. Anche perché in esso non si parla quasi mai di quel ‘cane nero’ che da duemila anni accompagna la storia d’Israele, e che, purtroppo, alla stessa identità ebraica – intesa, al contrario, come qualcosa che non richiede assolutamente alcuna domanda – ha dato e continua a dare un doloroso contributo, di cui molto volentieri si farebbe a meno.

Francesco Lucrezi, storico

(15 aprile 2015)