Libertà
Proprio pochi giorni prima della vigilia di Pesach, la festa che celebra la libertà del popolo ebraico, a me è stata data e tolta una libertà. Mi spiego: mi sono arruolato nell’esercito israeliano, o più precisamente nella Tsahal, le Forse di Difesa Israeliane. Questo evento ha suscitato in me moltissime riflessioni.
Dopo aver salutato i genitori e soprattutto la pasta di mamma, è avvenuto il mio primo incontro di ragazzo italiano con la mensa dell’esercito, e a parte gli scherzi si può dire che a partire da quel momento la mia libertà sia stata modificata. Nessuno mi ha chiesto se volevo lasciare la mia casa e la mia famiglia, se volevo smettere di fare tante cose che mi piacciono, per abitare in una base militare; nessuno mi ha chiesto se volevo rimandare l’inizio dei miei studi universitari di almeno tre anni, per fare il servizio militare.
Il servizio militare in Israele è una cosa comune, obbligatoria per tutti. È la normalità. Non vi è nell’arruolamento alcuna libera scelta. Quando dico che la mia libertà è stata modificata intendo sottolineare il fatto che in breve tempo mi sono trovato di fronte a un mondo pieno gerarchie, ritualità, grande disciplina e poca libertà individuale. La mia libertà è stata modificata perché non posso più vestirmi come voglio – nemmeno i calzini; perché non posso più cantare Pavarotti nella doccia, in quanto ho solo sette minuti e insieme ad altre persone; perché ho soltanto un’ora al giorno per lavarmi, prepararmi per dormire e anche usare il telefonino; perché non posso più frequentare gruppi politici come facevo prima; perché il mio migliore amico diventerà il fucile, da cui non posso mai separarmi anche se spero di non farne mai uso. Anche il barattolo di Nutella che mi sono portato sarà il mio migliore amico, ma quello è un segreto.
La mia libertà è stata modificata, cambiata, torturata, presa, in tanti modi diversi. Nonostante questo non credo di avere il permesso di lamentarmi. Non ho il permesso di lamentarmi perché penso che l’esperienza sarà positiva, educativa e importante, perché so che si tratta di un periodo di adattamento e che non sono l’unico e soprattutto perché in fondo mi viene anche data una grande libertà. La libertà che mi è stata tolta è infatti una libertà fisica, banale, materiale e non essenziale, ed è quindi il sacrificio che devo fare per l’altra libertà, quella che mi è stata data e che invece è una libertà molto più importante, quella di poter dire mantenendo la promessa del seder di Pesach ‘be shanah habah be yerushalam ha bnuiah’, l’anno prossimo a Gerusalemme costruita. Senza l’esercito israeliano e l’aiuto di Dio sarebbe impossibile per tanti ebrei vivere in pace e in sicurezza a Gerusalemme e nello Stato ebraico, e dunque io oggi pronuncio questa frase con orgoglio.
Inoltre, ho avuto l’occasione anche di conoscere nuovi amici, da varie città e di vari paesi del mondo. Come in un inizio di una tradizionale barzelletta, ho incontrato un francese, un inglese e uno svizzero che mi ha già invitato al suo matrimonio. A unirci è stato l’esercito, nato per difenderci. Dalla storia di Pesach impariamo che il primo individuo a definirci popolo, ‘Am’, è stato il faraone, un nostro nemico. Ma il compito di mantenere l’unione all’interno del popolo è nostro, e solo così possiamo difenderci.
Come Pesach, che è considerato uno dei vari capodanni dell’anno ebraico, vedo l’inizio del servizio militare come un capodanno. È un nuovo inizio, di un periodo che durerà di tre anni almeno. La liberta che mi è stata data è quella di poter difendere I miei cari a casa in Israele e di fornire una rete di sicurezza anche chi di loro vive all’estero, in Italia. Essi sanno che se dovesse succedere qualcosa in Europa, potranno sempre usare la Legge di ritorno e venire in Israele. Un paese che li riceverà a braccia aperte, li difenderà e li proteggerà come ebrei con il suo esercito. Israele è un luogo che garantisce la libertà di tutti i suoi cittadini e dà uguali opportunità a tutti.
Il paragone fra la difesa della libertà e la liberta di Pesach è tuttavia discusso da vari filosofi. Le critiche sono basate sul fatto che nella storia dell’uscita dall’Egitto, il popolo ebraico ha un ruolo passivo e non attivo. L’unico ad averlo è Dio che lancia le piaghe, apre il mare, uccide il faraone e compie tanti altri prodigi. A parlare per il popolo ebraico è soltanto Mosè, che tra l’altro non è mai nominato nella Haggadah. In risposta a questa critica viene detto che il popolo ebraico all’epoca non era ancora pronto a formare un esercito e a intraprendere un vero combattimento, però si è preparato subito quando c’è stata la guerra con Amalek. Per quanto riguarda Mosè, si risponde invece che è giusto che non sia nominato nel racconto come monito del fatto che a farci uscire dall’Egitto fu il Signore. Io ritengo che la forza d’Israele oggi come una volta dipenda sia dal suo esercito, e dunque dalla sua attività e non dalla sua passività, sia certamente dall’aiuto del Signore. Penso che siano due cose che vanno insieme e a differenza di alcuni ebrei che non riconoscono lo stato d’Israele prima dell’arrivo del Messia, io penso che il Signore aiuti chi prova ad aiutare se stesso. La mia opinione è basata su tanti esempi della Bibbia in cui Israele prega prima di andare in guerra, e uno di questi è appunto la guerra contro Amalek, raccontata nella parashah di Beshalach, che ho letto al mio bar mitzvah.
Il mio bar mitzvah è stato per me, come l’arruolamento, un momento di crescita, responsabilità e libertà. Per il bar mitzvah ho studiato e mi sono preparato fino ad arrivare a poter compiere da solo le mie scelte, e all’età di tredici anni un ragazzo ebreo diventa uomo, un membro di una comunità, e decide quale strada prendere. Così avviene anche nell’arruolamento. Un soldato si prende delle responsabilità, diventa parte di una comunità, di un esercito, e le sue azioni rappresentano un organo intero. Questo è segno di una crescita, di una maturità acquisita. La storia di Pesach ci racconta esattamente la stessa cosa. Il popolo ebraico dopo l’uscita non è ancora pronto e maturo per entrare in Eretz Israel. Tanto è vero che fa subito quello che fa un bambino piccolo, si lamenta.
Nella parashah di Beshalach si racconta della guerra contro Amalek guidata da Mosè come capo spirituale e Giosuè come capo militare. È la prima volta in cui si crea una esercito del popolo ebraico. Il ruolo di Mosè viene però criticato dai commentatori in quanto egli non ha un ruolo militare nel combattimento, non rischia la sua vita e quindi non è un vero esempio di leader del popolo. Questa critica è la stessa che esiste oggi contro alcuni “haredim” che scelgono di pregare e studiare Torah invece di arruolarsi nell’esercito.
Ma il vero senso del ebraismo sta secondo me anche nella partecipazione obbligatoria per legge delle persone nelle guerre. Tranne naturalmente alcuni casi specifici: l’astensione di Mosè dalla battaglia è infatti giustificata dai saggi per il fatto che egli ha già dimostrato di essere un eroe, un leader e un esempio per il popolo parlando direttamente con il faraone e rischiando così la vita.
Si può notare che Beshallah è una parashah che include diverse scene di violenza: vi sono raccontati l’affogamento degli egizi nel Mar Rosso, le piaghe, lo scontro con Amalek. Nonostante questo bisogna ricordare che la forza è stata usata solo nelle circostanze in cui era necessario e non si poteva farne a meno. La Torah ci insegna a non combattere se non è necessario e ad avere pietà e rispetto per i deboli. Nell’episodio del passaggio del Mar Rosso si possono leggere due elementi. In primo luogo, una straordinaria manifestazione di forza, una forza che stravolge le leggi naturali, una forza che può sterminare e distruggere. D’altra parte si nota che la forza è però soltanto uno strumento, non un valore, e il suo uso è giustificato solo se asservito a scopi speciali e in nome di valori alti.
Ad esempio, la manifestazione di forza che avviene nel passaggio del Mar Rosso è a mio avviso finalizzata a diversi scopi. Innanzi tutto, agli occhi dei Goym, essa sottolinea la potenza di Dio. Per gli ebrei, invece, questo attraversamento costituisce il modo di dimostrare la loro fiducia in Dio e una presa di responsabilità e di rischio. In termini visivi poi, il passaggio del Mar Rosso propone una situazione in cui Dio avvolge e protegge il Popolo d’Israele. Un’espressione di amore e protezione. Infine, vi è il concetto di giustizia: Dio avrebbe potuto respingere gli egiziani e farli tornare indietro nell’Egitto già devastato dalle dieci piaghe, ma invece li ha sommersi. A Israele Dio vuol dimostrare che il faraone, quello stesso sovrano che sino a poco prima decideva della vita e della morte degli ebrei, è morto, neutralizzato per sempre. Questo passo era necessario perché il Popolo di Israele si liberasse dalla paura, dal timore che Faraone potesse ritornare. Dopo essere stato liberato dalla schiavitù fisica, era necessario che il popolo si liberasse dalla svhiavitù psicologica, spirituale. Talvolta la giustizia deve essere più forte della compassione. Tuttavia, non bisogna diventare indifferenti e disprezzare il dolore dagli altri. Nemmeno dei nostri nemici. Durante l’ultima estate, nel corso della guerra a Gaza, sapevo che l’azione intrapresa era giusta e che andava colpito quel crudele nemico. Tuttavia non sono potuto rimanere indifferente di fronte ad immagini difficili che arrivavano, immagini di vittime e morte
La storia di Pesach è diventata un simbolo e un’icona della libertà. Parlando della quale, è di pochi giorni fa la notizia che il Consiglio per il diritto delle donne all’ ONU ha rilasciato una dichiarazione che mi ha fatto pensare che fosse un pesce d’aprile: Israele sarebbe uno degli unici Paesi che non garantisce i diritti delle donne. Questo senza ricordare l’Afghanistan, l’Iraq, la Siria oppure l’Arabia Saudita. Proprio Israele, dove le donne hanno tutti gli stessi diritti degli uomini e a differenza di quanto avviene in vari Paesi arabi possono guidare, girare liberamente, e da molti anni prima che in Europa possono svolgere il servizio militare. Proprio Israele, dove c’è stata una donna come primo ministro prima che in tanti altri paesi. Si può dire che le donne siano molto coinvolte in Israele ma anche all’interno del mondo ebraico. Per esempio la nuova presidente dell’Unione Giovani Ebrei d’Italia, Talia Bidussa, è una donna. Su questa dichiarazione ridicola non mi resta che accennare il fatto ironico che in Israele ci sono più donne che pilotano un aereo F-16 che donne che guidano una automobile.
Il ruolo delle donne nell’ebraismo è alcune volte più importante di quello degli uomini. Per esempi, subito dopo l’uscita dall’Egitto non viene ricordato Mosè ma sua sorella Miriam, che l’ha salvato da bambino. E proprio Miriam è considerata una profetessa. Questo è a mio parere da considerare come un episodio di femminismo nella Torah.
Poche settimane fa al tempio Italiano di Gerusalemme si e tenuta una ‘tfilat nashim’, una preghiera delle donne in cui la figlia di rav Pierpaolo Pinhas Punturello ha letto la Torah all’interno di un gruppo di preghiera composto da sole donne. “Un momento celebrativo che cammina con la consapevolezza dei tempi, nutrendosi di evoluzioni e non causando rivoluzioni. Le stesse evoluzioni sociali che tra fine Ottocento ed inizio Novecento diedero i natali al concetto di bat mitzvah come lo intendiamo noi, le stesse evoluzioni che portarono i grandi maestri europei di quella generazione a guardare le giovani donne ebree d’Europa con un nuovo senso ebraico di partecipazione”, ha scritto Rav Punturello. Mi è molto piaciuto anche il suo paragone delle donne ebre a stelle che appartengono al “più grande esercito di luce del mondo”, perché in Israele le donne in effetti appartengono anche a un altro esercito, lo stesso degli uomini.
Infine vorrei concludere con altri due atti di eroismo per la libertà: quelli dei miei due nonni Vittorio Sacerdoti e rav Sergio (Yosef) Sierra, a cui dedico queste riflessioni.
Mio nonno Vittorio si è anche lui arruolato nell’esercito. Questo però alcuni anni prima che esistesse un esercito israeliano. Nonno Vittorio, dopo aver dovuto lasciare il suo liceo Tito Livio per le leggi raziali, è andato in bicicletta da Padova verso il nord e si è arruolato nell’esercito degli Alleati. In seguito ha combattuto contro i nazisti e con tanto eroismo ha consentito la liberazione dell’Italia. Oggi sono felice di combattere come lui per una causa che mi sta a cuore, la libertà di difendere il mio popolo.
Mio nonno Sergio invece è stato per tanti anni rabbino capo della Comunità ebraica di Torino, ma prima di questo è stato il primo rabbino della Comunità di Bologna dopo il secondo conflitto mondiale. Fu colui al quale venne affidato l’oneroso e difficile compito di ricostruire la Comunità dopo che una grossa parte di essa fu trucidata nei campi di sterminio nazisti e con un Tempio completamente distrutto. Fu lui insieme all’allora Presidente della Comunità Eugenio Heiman a lavorare sodo per far in modo che gli ebrei rimasti nella Comunità potessero ritrovare un filo di speranza e di pace dopo quel cataclisma che aveva colpito la maggior parte degli Ebrei del mondo. Nonostante la fatica di essere Rabbino e padre della Comunità in genere, non cessò mai la sua opera di insegnante, ma soprattutto di lavorare con gli ebrei per la cultura e lo studio della Torah.
Il mio cuore in questi giorni è con alcuni dei miei amici che come probabilmente dovrò fare io l’anno prossimo sono rimasti nelle loro basi di guardia e non hanno avuto vacanza in questi giorni. Hanno dovuto celebrare il Seder con l’esercito, senza i piatti tradizionali di casa loro, le canzoni della loro famiglia, la luce, i sapori e i profumi consueti, ma soprattutto senza i loro cari. Lo hanno fatto per la libertà di Israele, e questo deve rafforzarli e consolarli. Ma vorrei raccontare di un altro Seder che mi ha colpito e lega le Forze di Difesa Israeliane alla festa di Pesach, quello delle famiglie dei soldati rapiti e dispersi che si è tenuto in piazza Rabin a Tel Aviv. È una novità: sedici famiglie si sono unite per celebrare il Seder e mantenere il ricordo di ben più di 500 persone in Israele a cui non si sa cosa sia successo. Come ha scritto rav Punturello “Esiste un quinto figlio al Seder di tutti noi: coloro che ci hanno rapito”. E in effetti, uno dei ruoli principali della Tsahal è far sì che non ci siano più rapiti e dispersi, trovandoli e liberandoli. Per questo posso stare tranquillo che la mia vita, come quella di ogni altro soldato, è importante per l’esercito e per lo Stato d’Israele, e questo non vale per tutti gli eserciti del mondo.
Vorrei finire con le parole dell’Hatikvah: “liot am chofshi be arzenu”, l’auspicio di essere un popolo libero nel nostro Paese.
Michael Sierra
(17 aprile 2015)