…tradimento

Ci sono parole estreme che dovrebbero essere utilizzate con una cautela particolare. Non che gli estremismi facciano male, anzi: danno un po’ di pepe al dibattito spesso noioso e ripetitivo. Ma c’è sempre una misura oltre la quale se si decide di proseguire si rischiano rotture poi difficili da risanare.
Una di queste parole è ‘traditore’, ed è utilizzata generalmente in situazioni di guerra. La storia ebraica è piena di episodi legati a questo concetto. Qualche anno fa lo storico Pierre Vidal Naquet, mai rimpianto a sufficienza, dedicò un intero libro al ‘buon uso del tradimento’ analizzando la difficoltà di definire il concetto stesso di tradimento. Il soggetto all’epoca era il generale Joseph ben Matatiahu, uno fra i più rispettati capi militari della Giudea che si opponeva all’invasore romano e che fu costretta a capitolare dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme. Joseph fu catturato e portato a Roma, dove divenne Flavio Giuseppe, cittadino romano e storiografo degli eventi cui aveva partecipato. Traditore? Discutibile. Per generazioni di studiosi fu solo una fonte preziosa, poi con l’avvento del nazionalismo ebraico la sua figura fu spesso semplificata e travisata, messa a volte in contrapposizione con gli eroici resistenti di Masada che preferirono togliersi la vita pur di non cadere nelle mani del nemico.
Ma a ben vedere in questa versione la retorica la fa da padrona, e lo stesso Flavio Giuseppe non nasconde la sua propria vicenda dietro versioni di comodo e racconta senza vergogna quale fu il suo comportamento. Non si sente, cioè, un traditore. Ha compiuto una scelta, che riteneva essere quella più giusta non solo per sé ma per l’intero suo popolo (era un capo militare, non dimentichiamolo, un leader riconosciuto). Anche al giorno d’oggi fra gli ebrei c’è chi usa con una certa leggerezza l’accusa di tradimento. Ma si tratta di un uso parzialmente aggiornato: traditore è chi non la pensa come me. Traditore è chi sostiene – politicamente – che ci sono altre strade per raggiungere un obiettivo che – almeno in apparenza – sembra essere comune, e cioè arrivare a far vivere finalmente in una condizione di pace (=assenza di guerra, convivenza e collaborazione economica, sociale e culturale con i vicini, integrazione e benessere sociale) Israele e i suoi cittadini. Qualche giorno fa David Grossman (spesso considerato un traditore con Amos Oz e Abraham B. Yehoshua) dichiarava di fronte a 500 italiani attoniti che loro ne sapevano sicuramente più di lui sulla pace, semplicemente perché lui da cittadino israeliano non l’aveva mai vissuta. E la vedeva come un obiettivo necessario e inevitabile. Se è questo l’obiettivo per cui si lavora e si scrive, allora la parola traditore perde di significato perché non si può non riconoscere che sono diverse e plurali le strade che possono condurre alla pace. Se, al contrario, ci si chiude in una dimensione etnico-religiosa che identifica nella separazione e nel conflitto permanente la propria condizione identitaria, allora il concetto di tradimento assume un significato riconoscibile ma che non posso condividere. Chi accusa l’altro di tradimento si sente in effetti tradito, mentre l’accusato non può avere la stessa percezione poiché non condivide con l’accusatore né la strategia né gli obiettivi. Che poi è la stessa condizione in cui si trovò Joseph ben Matatiahu nella cisterna di Yerushalaim. Assediato dai romani, nascosto assieme a 40 compagni di resistenza, si confrontò in un dibattito serrato sul da farsi: alcuni scelsero la via del suicidio (come gli eroi di Masada), che lui però non condivideva. ’Am Israel Chay, il popolo di Israele vive, è il classico slogan politico gridato in tante battaglie, e Joseph dava un particolare significato alla parola Chay, vive. Vivere per continuare a testimoniare, e di conseguenza no alla via del suicidio. Tradimento? Non mi pare sia questo il caso, e non mi pare che rispolverare questo concetto oggi possa portare a una strada di pace.

Gadi Luzzatto Voghera

(17 aprile 2015)