Raddrizzare i morti

vercelliDelle parole di papa Bergoglio, le autorità turche, che si indignano e s’intignano, quasi fossero state ‘tarantolate’, fanno quasi strame. Trattasi infatti, secondo il loro interessato avviso, di un menzognero equivoco. O giù di lì, tanto per intenderci. Il riferimento è al genocidio degli armeni. Del quale molti, adesso, parlano.
Non importa con quanta cognizione di causa, ben sapendo che la sua contrastata memoria verrà archiviata a breve, circumnavigato il 24 aprile, quando la stessa ricorrenza centenaria sarà velocemente archiviata nel magazzino dei ricordi scomparsi. Peraltro, a pesare di più non è il passato bensì il presente. Sulla questione armena, e sulla sua radicale soluzione, pesa infatti un negazionismo di Stato che se è moralmente (e politicamente) inaccettabile tuttavia ha una sua intima coerenza. L’intera nazione turca, come espressione della contemporaneità, ovvero come prodotto dell’estinzione del modello ottomano e, parallelamente, della fondazione di un moderno Stato laico, si fonda su tale rimozione pubblica. Non da parte della società civile nella sua intima natura, dove pure le cose si dicono, quand’anche con la dovuta cautela e le calcolate prudenze dettate dal caso, ma dei suoi apparati amministrativi, gestionali e politici. Con la negazione, infatti, il potere turco, è come se ripetesse una sorta di mantra fondativo, un mito di origine, tanto più necessario perché istituito non su una affermazione bensì su una cancellazione: quella di una violenza originaria, basata sull’instaurazione di un falso culturale, quello dell’omogeneità anatolica, dalla quale prende fiato e corpo il nazionalismo turco.
Negare il massacro in massa degli armeni, infatti, non è una patologia di quel potere ma parte della sua stessa essenza, del suo costituirsi come fonte esclusiva di legittimazione. Il fuoco del rifiuto non ruota quindi intorno alle violenze. Si è storicamente riconosciuto, anche da parte turca, che ‘eccessi’ ed ‘intemperanze’ si consumarono.
Il tutto, peraltro, in una fase storica travagliata, quella compresa nell’arco di tempo della Prima guerra mondiale, quando ciò che restava del decadente Impero ottomano veniva minacciato dagli appetiti di un altro impero, che di lì a poco sarebbe imploso, quello zarista (l’impero e l’imperialismo russi non sono invece mai venuti meno, trasfondendosi nell’impresa sovietica). La contestualizzazione, da questo punto di vista, viene usata dalle autorità turche per ridimensionare integralmente l’operato distruttivo dei gruppi dirigenti di Costantinopoli prima e di Ankara poi. La sequenza interpretativa funziona grosso modo così: riconoscere senz’altro l’esistenza di un ‘problema’ (variamente declinato: il ‘problema armeno’ è per certuni, a tutt’oggi, quello del loro «tradimento» verso lo Stato centrale; per altri, l’eccesso di risposta aggressiva da parte delle autorità); inserirlo nell’eccezionalità di un conflitto planetario dove – si sa – di morti, anche tra i civili, ce ne sono sempre tanti, ponendo sullo stesso piano le ragioni che causano il decesso degli indifesi, affinché siano considerati in tal senso indistintamente, a causa di un cieco bombardamento come di una fucilazione in massa; passare poi al contrattacco, accusando, quanti imputano una preordinazione politica nella vicenda del massacro degli armeni, di essere loro i veri falsificatori. Si tratta, per l’appunto, di una dinamica classicamente negazionista. Che non disconosce mai del tutto le violenze, semmai separandole dal contesto politico, culturale e amorale in cui si verificano, per poi sezionarle nella loro singolarità, facendo in modo che non comunichino tra di loro. Un genocidio, infatti, per essere tale, richiede una pluralità di elementi: preordinazione, decisione, esecuzione ma anche consequenzialità e continuità tra ripetute pratiche di omicidio di massa.
Non è una cosa che possa essere compiuta in maniera sconnessa e sconclusionata, in mancanza di una volontà politica sufficientemente unitaria. Senza questi (ed altri) elementi, diventa infatti molto più difficile sostenere che quella cosa che per convenzione – peraltro giuridicamente e culturalmente ancora assai discussa ma in sé data e assodata come inquietante aspetto del Novecento – è atto di genocidio, possa avere avuto per davvero luogo in campo anatolico. Ed è esattamente quanto il negazionismo turco va facendo. Ci furono anche aberrazioni, ma costituirono casi isolati, ci restituisce del passato quest’ultimo. Poiché per Ankara è a tutt’oggi essenziale che la comunità internazionale non vi attribuisca l’aderenza alla norma che dal 9 dicembre del 1948, con l’approvazione della risoluzione 260 A, contiene il dispositivo della «Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio». La quale statuisce all’articolo II che: «per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale: uccisione di membri del gruppo; lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro». Morti sì, ma per caso e non per progetto. La questione del negazionismo turco sta tutta dentro questo gioco tra riduzione, rimozione, sovrapposizione e traslazione. Riduzione del massacro generalizzato a computo di violenze discontinue, più o meno occasionali, in parte giustificate (o giustificabili) con la motivazione che gli armeni, in quanto minoranza, essa stessa già parte del circuito di potere ottomano, fossero ora, invece, dei traditori della lealtà dovuta al centro turco; rimozione della responsabilità politica, tra le altre cose invece sancita nel 1915 dall’adozione di una serie di misure legali che statuivano l’obbligo della deportazione nonché della spoliazione sistematica degli averi di tutti i membri della minoranza; sovrapposizione asfissiante tra stato di eccezione, dettato dall’urgenza bellica, e azione contro i civili, ora qualificati come ‘nemico interno’; traslazione, nel senso di attribuire alle vittime la fisionomia di carnefici in fieri. Contro i quali, in quest’ultimo caso, il potere ‘legittimo’ sarebbe tenuto ad operare anticipatamente, per prevenire e cauterizzare il rischio di un’infezione provocata dalla slealtà altrui, tradottasi, secondo la vulgata, in sistematica militanza nel campo avversario. Ma c’è un qualcosa di più, che sinistramente, anticipa altre immani tragedie a venire, con consonanze inquietanti rispetto alla stessa Shoah. Lo citiamo di passata, riservandoci di tornare sopra nei prossimi articoli. Tutta l’impresa delle élite turche, neorepubblicane, assai poco o nulla proclivi a quell’ottomanismo che vedevano invece come la radice di un declino inarrestabile, ritenevano che una nuova comunità nazionale avrebbe potuto rinascere, a fronte dello sfacelo del sistema imperiale, solo adoperandosi nel senso di un sistematico socialdarwinismo. Il quale si traduceva nella costruzione di uno Stato-nazionale per più aspetti idealizzato come etnicamente omogeneo. Come ogni nazionalismo, si creava da sé l’immagine (e lo spettro) di tale inedita integrità. In altre parole, l’idea di una nuova nazione’, che derivava anche dalle suggestioni tardo-ottocentesche della necessità di rigenerare l’umanità, dando vita ad un ‘uomo nuovo’, un uomo faber, attivo costruttore del suo futuro, oltre che ad include la stirpe degli omogenei, di quelli che garantivano di portare con sé caratteristiche analoghe, implicava l’esclusione delle figure eccentriche. Individui o gruppi che fossero. Da qui, e dal suo combinarsi con le dinamiche geopolitiche dell’area compresa tra i Balcani e il Caucaso, prende le mosse il genocidio degli armeni.

Claudio Vercelli

(1/continua)

(19 aprile 2015)