Periscopio – Rav Toaff e il Dialogo

lucreziIn questi giorni di lutto e commozione, in cui tutta l’Italia e tutto il mondo ebraico si fermano in raccoglimento, per rendere omaggio alla straordinaria figura di Elio Toaff, vorrei, tra i tanti, grandissimi meriti del Maestro scomparso, sottolinearne uno di particolare importanza, che certamente contribuirà a incidere il suo nome, in caratteri indelebili, nel libro d’oro della storia: quello di avere posto con forza e determinazione, al centro del controverso problema del dialogo ebraico-cristiano, la questione del pieno riconoscimento, da parte della Santa Sede, dello Stato d’Israele, e di averlo fatto spendendo, per questo obiettivo, tutta la sua preziosa, altissima autorità morale. E voglio farlo anche sulla base di un ricordo personale.
Molti, giustamente, hanno ricordato il grande significato storico della visita di papa Giovanni Paolo II nel Tempio Maggiore di Roma, il 13 aprile 1986, e non c’è dubbio che il personale prestigio di Toaff abbia grandemente contribuito al felice esito dell’evento, facendo superare, fra l’altro, resistenze e comprensibili perplessità da parte ebraica.
Ma il rapporto della Chiesa con quelli che il papa volle chiamare i “fratelli maggiori” restava ambiguo e incompleto, dal momento che il Vaticano si ostinava ancora a non riconoscere la patria degli ebrei, risorta e redenta dopo diciannove secoli di esilio. Ciò sarebbe avvenuto solo sette anni e mezzo dopo, con l’accordo di riconoscimento tra Santa Sede e Stato di Israele, siglato a Gerusalemme il 30 dicembre 1993, e seguito, il 15 giugno 1994, dalla ufficiale normalizzazione diplomatica. Passi ottenuti, anch’essi, dietro forte e diretta sollecitazione di Toaff, il quale, in un rispettoso ma franco comunicato del 20 gennaio 1991, pubblicato mentre Tel Aviv veniva bombardata dall’Iraq di Saddam Hussein, denunciava il silenzio della Santa Sede, che, nei reiterati appelli alla pace, evitava accuratamente di pronunciare il nome di Israele. Un’omissione che sembrava collegata al perdurare del mancato riconoscimento dello Stato ebraico da parte del Vaticano, in forza di un rifiuto che pareva inspiegabile, se non sulla base di un pregiudizio di ordine teologico.
A questo comunicato seguiva, cinque giorni dopo, una nota ufficiale della Santa Sede, nella quale la mancata normalizzazione diplomatica veniva spiegata con diverse ragioni di ordine politico, ma negando l’esistenza di quel pregiudizio teologico che era stato adombrato nel comunicato sottoscritto dal rabbino capo. In realtà, quel pregiudizio c’era, ed è stato un merito personale di Toaff contribuire a farlo capire. Solo un uomo della sua autorità e statura poteva attraversare, con la propria voce di verità e giustizia, le spesse mura del Vaticano, ottenendo che la posizione della Chiesa, finalmente, cambiasse. Fintanto che non fosse cambiata, il riavvicinamento tra ebrei e cristiani non avrebbe mai potuto essere pieno e sincero. Questo cambiamento era già stato reclamato con forza, come si ricorderà, durante il discorso che Toaff pronunciò nella Sinagoga Maggiore nel 1986. Tale richiesta fu allora disattesa, e ricordo benissimo i commenti di parte della stampa italiana, in cui la mancata risposta del papa su questo punto fu elogiata, come rifiuto di “strumentalizzazioni politiche”. Si trattava, invece, di un punto ineludibile, di essenziale importanza.
E vengo qui al ricordo personale. Ebbi il privilegio di parlare con Toaff una prima volta nell’aprile del 1987, nel corso di un congresso alla Hebrew University di Gerusalemme, organizzato, fra gli altri, dal mio Maestro “de iudaicis rebus” Alfredo Rabello, che ebbe la gentilezza di invitarmi a partecipare.
Toaff, con immediata cordialità umana – lui era un mito, io uno sconosciuto professorino -, mi raccontò i retroscena di quel 13 aprile dell’anno precedente, rivelandomi che anche nel colloquio privato seguito alla cerimonia pubblica egli aveva insistito con Wojtyla, chiedendogli quando avrebbe dato luogo al riconoscimento ufficiale di Israele. La risposta del papa, riferitami dal Rabbino, fu questa: “Lei conosce l’Ecclesiaste meglio di me. C’è un tempo per tutte le cose”. Memore dei tempi millenari di madre Chiesa, manifestai al mio illustre interlocutore un’ombra di scetticismo. Ma lui, con un sorriso radioso, si disse invece fiducioso: “Non ha detto che non lo farà”.
Aveva ragione lui, come sempre. Ma se quel tempo, finalmente, è giunto, lo si deve, in grande misura, proprio a lui: alla sua intelligenza, alla sua tenacia, e al suo cuore.

Francesco Lucrezi, storico

(22 aprile 2015)