Ricordare il Grande Male
“Ero con mio padre, tenevo la sua mano. La metà della strada era ricoperta di persone morte”. A parlare è Movses Haneshyan, che aveva cinque anni quando nel 1915 un milione e mezzo di armeni vennero deportati nel deserto siriano e uccisi per mano dell’esercito Ottomano nell’attuale Turchia. Di quello sterminio ricorre il centenario il 24 aprile, il giorno in cui i soldati Ottomani arrestarono duecento leader e intellettuali armeni in quello che fu solo il primo tragico passo di una vera e propria campagna di pulizia etnica. La Turchia ancora oggi non riconosce quel massacro, che gli armeni chiamano “Metz Yeghern”, il Grande Male, come genocidio, insieme ad altri paesi. Vi sono però numerose attestazioni che hanno contribuito a tale riconoscimento da parte della comunità internazionale, e tra queste molte sono di testimoni di origine ebraica.
Il cinquenne Movses, che oggi parla della sua storia mentre si reca al cimitero di Vagharshapat per una cerimonia solenne di commemorazione delle vittime, vide entrare i soldati nel villaggio dove viveva. Certo non si poteva rendere davvero conto che si trattava di una campagna programmata per sradicare gli armeni dalla regione dell’Anatolia, ma afferma di avere ancora ricordi vividi di quel giorno. “I soldati sono arrivati e ci hanno raccolto nel villaggio, spingendo i loro fucili contro di noi”, racconta. “Mia mamma era andata in un villaggio vicino, non abbiamo mai saputo cosa le sia successo”. Movses e suo padre Ibrahim non si sarebbero mai salvati se la loro marcia non fosse passata attraverso il villaggio di un ricco arabo per cui Ibrahim aveva lavorato anni prima. “Ci ha visti e corrotto i soldati per liberarci, poi ci ha messi su un cavallo e portati a casa sua”. Dove i due hanno vissuto per tre anni, nel terrore di essere scoperti, lavorando nella fattoria. Solo quando la Francia occupò la provincia turca di Hatay nel 1918 poterono tornare nel loro villaggio, per poi trasferirsi in Armenia, nell’attuale Libano.
Haneshyan afferma di voler vivere allo scopo di vedere quel massacro infine universalmente riconosciuto come genocidio, e usa parole chiare: “se aveste visto con i vostri occhi, se aveste sentito i rumori sulla strada per Deir Ezzor, in Siria, dove sorgevano i campi di concentramento, sapreste che in realtà è tutto molto semplice: migliaia di persone furono uccise. Non si può negare”. Contro il negazionismo del genicidio armeno si sono battuti anche molti testimoni dell’epoca di origine ebraica. Alcune delle loro voci, per esempio, sono raccolte nel recente volume “Pro Armenia. Voci ebraiche sul genocidio armeno” (Giuntina). Gli autori delle opere che lo compongono sono due diplomatici, lo statunitense Lewis Einstein e il russo André Mandelstam, che si trovavano in Turchia durante lo sterminio; Aaron Aaronsohn, un ebreo rumeno stabilitosi in Palestina tra i fondatori del N.I.L.I., un gruppo sionista che faceva opera di spionaggio per l’Inghilterra; e Raphael Lemkin, il giurista a cui si deve la creazione del concetto di genocidio. I primi tre in particolare tra l’altro, come fa notare la storica Anna Foa sul numero di Pagine Ebraiche di marzo 2015, hanno scritto il loro rapporto negli anni immediatamente successivo ai fatti. “Siamo di fronte – sottolinea Foa – ai primi testimoni della storia dei genocidi del Novecento, il secolo dei genocidi e della testimonianza”.
Uno dei maggiori miti che tali testimonianze sfatano, fa notare la sociologa Maria Immacolata Macioti sempre su Pagine Ebraiche, è la mancanza di intenzionalità nelle azioni perpetrate dai soldati ottomani. “È proprio su questo punto – scrive – quello cioè della in-intenzionalità delle malattie, della fame, delle morti armene durante la deportazione che si basa lo storico americano di origini tedesche Günter Lewy”, che ipotizza “che i Turchi sono stati, al più imprevidenti”. Ma sono tutti simili, sottolinea Foa, “i resoconti dei fatti a cui gli autori hanno personalmente assistito, le descrizioni del genocidio, delle marce di donne e bambini, dei massacri. Concordanti le loro analisi – continua – sul fatto che si trattò di uno sterminio preordinato e organizzato, non di violenze, sia pur di massa, legate alla guerra”.
Foa cita anche le denunce della complicità della Germania, alleata nella guerra dell’Impero Ottomano. “I massacri armeni sono frutto dell’azione pianificata con cura dai turchi, e i tedeschi certamente dovranno per sempre condividere con loro l’infamia di questa azione”, scriveva Aaronsohn.
Un’altra testimonianza importante, citata da Macioti, è inoltre quella di Henry Morgenthau, ambasciatore statunitense in Turchia tra il 1913 e il 1916. Morgenthau ebbe il coraggio di affrontare i leader turchi sul massacro degli armeni, e implorò il governo degli Stati Uniti di intercedere per fermare quella che chiamò “una campagna di sterminio in corso”. Per questo perse il suo incarico, e sulla vicenda scrisse un importante libro di memorie intitolato “La storia dell’Ambasciatore Morgenthau”.
È poi uscito questa settimana il racconto biografico “La lettera a Hitler. Storia di Armin T. Wegner”, di Gabriele Nissim, presedente di Gariwo – la foresta dei Giusti. Nissim racconta la vita dello scrittore tedesco Armin T. Wegner, primo testimone del genocidio armeno, le cui fotografie scattate quando era ufficiale sanitario dell’esercito tedesco in Anatolia durante la Prima guerra mondiale, fornirono subito la prova inconfutabile degli orrori che erano avvenuti in quella zona. Nel 1933 Wegner scrisse poi una lettera a Hitler per protestare contro la persecuzione degli ebrei, e dopo aver subito torture da parte della Gestapo e costretto all’esilio, passò in Italia, tra Roma, Positano e Stromboli, il resto della vita. Nissim ha definito Armin Wegner “il testimone del fallimento morale del ‘900”. Lo scrittore, ha sottolineato, “si è schierato contro l’indifferenza del mondo e ha tristemente toccato con mano l’incapacità degli uomini di imparare dai propri errori, ma non si è mai arreso. Il suo esempio ci ricorda che la memoria del passato è fondamentale per riconoscere e prevenire i crimini di oggi.”
Ma le tragiche vicende storiche del genocidio armeno sono state sfondo anche di romanzi, tra cui quello intitolato “I quaranta giorni del Mussa Dagh”, pubblicato nel 1934 da Franz Werfel, scrittore ebreo austriaco che scampò alla morte durante la Seconda Guerra Mondiale. Il libro, considerato uno dei più importanti tra quelli sulla storia del genocidio, racconta la resistenza armena in un piccolo villaggio di montagna. Tra l’altro, nella narrazione compaiono anche avvisi di quello che sarebbe successo di lì a poco agli ebrei europei, e il volume fu tra quelli censurati e messi al rogo dai nazisti nel 1934.
Il 24 aprile a Yerevan, capitale armena, decine di capi di stato e di governo ricordano questa triste pagina in una cerimonia ufficiale. Per la prima volta quest’anno Israele manderà una delegazione di membri della Knesset, rispondendo all’invito ufficiale rivolto al governo, formata da Nachman Shai (Unione Sionista) e Anat Berko (Likud). Il premier turco Erdogan, invece, per la stessa data, ha organizzato la celebrazione della battaglia di Gallipoli, invitando tra gli altri anche il presidente armeno. “Il genocidio armeno si è purtroppo consumato tra l’indifferenza dei popoli, dando modo ad altre menti tiranne di pensare nuovi genocidi”, ha dichiarato in un comunicato il presidente della Comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici esprimendo cordoglio nel giorno della commemorazione del centenario.
Francesca Matalon twitter @fmatalonmoked
(24 aprile 2015)