Genocidio armeno: un quadro d’insieme
Le costanti incursioni europee, formalmente a tutela dei diritti delle minoranze, a partire proprio da quella armena, concretamente per influenzare e limitare lo spazio di autonomia della leadership ottomana, diventano, soprattutto dopo il Congresso di Berlino del 1878, uno dei motivi di acredine di quest’ultima nei confronti dell’Europa. L’associazione tra l’ingerenza delle potenze continentali con la crescente subalternità turca e le immotivate prerogative attribuite ai gruppi non musulmani (quanto meno dal momento in cui l’istituto delle capitolazioni e le amputazioni territoriali vengono così percepite, e quindi rielaborate, collettivamente dai musulmani medesimi) sono pertanto alla base di una miscela di risentimento – per il senso di espropriazione che si esplicita come risultato di imposizioni ingiuste – e di gusto della rivalsa – quest’ultimo in quanto propellente per un futuro progetto politico di ridimensionamento di quelle comunità minoritarie, viste ora sempre più come un corpo estraneo. Due elementi, questi ultimi, che saranno presenti per molti decenni non solo tra i gruppi dirigenti che si succederanno a Costantinopoli, per poi arrivare ad Ankara, ma anche tra la stessa popolazione di origine per l’appunto musulmana. Se la modernizzazione poteva costituire, quanto meno per i nuclei urbani così come per i soggetti esposti al contatto con la realtà europea, una tentazione plausibile non meno che un desiderio irrealizzabile, lo scenario geopolitico di un progressivo ridimensionamento del territorio ottomano si traduceva inequivocabilmente, agli occhi degli osservatori locali, in una sorta di inganno ora svelato. Di fatto le élite vivevano una sorta di dicotomia tra i modelli di riferimento, quelli che provenivano dall’«Occidente», presentati come una meta auspicabile, e la vividezza dell’amputazione, non solo territoriale bensì morale, che derivava dal nuovo quadro geopolitico. Agli armeni veniva attribuita la responsabilità non solo di trarne un indebito beneficio bensì di cospirare con il nemico tradendo, al medesimo tempo, il patto di lealtà che avrebbe invece dovuto tenerli legati al centro politico ottomano. La propaganda di quest’ultimo eresse infatti a vero leitmotiv, ben prima di procedere per la strada dell’assassinio di massa, l’accusa di parassitismo politico, di doppiezza prima e di collusione poi, fino alla dichiarazione della compromissione totale con le potenze straniere. Un crescendo che si dipana dall’età hamidiana (dagli ultimi trent’anni del XIX secolo al 1908) ai Giovani Turchi per arrivare al governo rivoluzionario dell’ottobre del 1919 e, infine, a Mustafa Kemal Atatürk, il primo presidente della Turchia contemporanea, con il 1923. Già si è avuto modo di sottolineare come l’Impero ottomano regolasse al suo interno i rapporti tra gruppi di diversa origine, lingua e religione attraverso un complesso sistema di comportamenti e di regole in parte non scritte ma anche e soprattutto di norme amministrative e di leggi. Questo complesso reticolo di usi e vincoli istituzionali ne ha caratterizzato l’esistenza per secoli, influenzando non solo lo statuto delle minoranze ma anche della medesima maggioranza musulmana. Le minoranze protette, ossia i cristiani (ed in particolare i greci ortodossi; i cattolici romani; i mekitharisti, i gregoriani e gli evangelici tra gli armeni; i protestanti, i maroniti, i nestoriani, tra i cristiani di Siria) nonché gli ebrei, erano integrate nello statuto della Dhimma. Nei fatti si trattava, storicamente, di gruppi coesi, con i quali il conquistatore turco aveva stretto un patto di protezione contro le razzie delle tribù nomadi, in cambio di un tributo in denaro. Nel corso dei secoli l’abitudine si era stratificata in una tradizione di scambio politico, che aveva cementato le relazioni interculturali intorno ad un unico centro di fedeltà. Va infatti ricordato che nell’Impero il sultano incarnava sia il potere temporale che quello spirituale. La complessa società ottomana, nel suo insieme, rispondeva a criteri derivati – nel senso di traslati attraverso le infinite interpretazioni – dal Corano, cui si rifacevano i musulmani di ogni comunità, che fossero turchi, arabi, curdi e così via. C’era tuttavia spazio anche per altre religioni, creando comunque due tipi di “sudditi”, gli uni integrati a pieno titolo e gli altri limitati, per più aspetti, soprattutto giuridici, dalla differenza religiosa. Per la Sublime Porta l’islamicità costituiva il tessuto connettivo che ne doveva garantire la tenuta, fatta salva la diversità storica, culturale e sociale di ogni gruppo o popolazione parte dell’Impero. Nel suo insieme, questa posizione, destinata con il XIX secolo a scontrarsi con i cambiamenti in atto, rivelandosi sempre più spesso anacronistica, ovvero incapace di svolgere la funzione per cui continuava ad essere formalmente sostenuta, implicava la separazione delle comunità, il loro doversi differenziare, limitando l’ibridazione e l’assimilazione. Due processi, tuttavia, che erano nell’aria, con i cambiamenti in atto in tutto il Mediterraneo. Ancora una volta occorre ricordare che il declino dell’Impero è in un primo tempo lento, per poi accelerarsi per tutta la durata del XIX secolo. Se i turchi erano arrivati a minacciare Vienna sia nel 1529 che nel 1683, con la fine del XVII secolo era iniziato un processo di progressiva erosione che, in età contemporanea, si era quindi tradotto in una somma di tracolli regionali in successione. La perdita della Grecia, tra il 1829 e il 1832, aveva segnato politicamente la soglia del non ritorno. Gli assetti e gli equilibri interni ne avevano infatti seccamente risentito. Mentre i Balcani, nel giro di cinquant’anni, si sarebbero completamente resi indipendenti, la Gran Bretagna avrebbe nel frattempo messo le mani su Cipro (1878), amministrandola come territorio proprio, ancorché sotto la formale giurisdizione ottomana fino al 1914, insieme all’occupazione dell’Egitto nel 1882 e a quella francese dell’Algeria (1830) e della Tunisia (dal 1881 protettorato francese). A questa deriva il movimento delle «Tanzimat» (le «riforme»), sostenuto ed alimentato da alcuni sultani e da alti dignitari di corte, questi ultimi formatisi a diretto contatto con l’Europa, cercò di porre un qualche freno. Iniziato nel 1839 e conclusosi nel 1876 aveva ad obiettivo un vasto programma, a partire dalla modernizzazione dell’Impero, dei suoi apparati amministrativi e dalla struttura politica; il contrasto alla proliferazione delle istanze indipendentiste, cercando di contrapporre ad esse, di caso in caso, forme di autonomia o di compartecipazione alla gestione dei territori; il rilancio il ruolo geopolitico dell’Impero a livello mediterraneo. Già nel 1826, sotto gli auspici del sultano Mahmud II, era stato eliminato il corpo militare dei giannizzeri, in origine milizia personale del regnante e poi forza armata regolare, composta da prigionieri e schiavi cristiani convertiti, divenuta poi, nel corso dei secoli, una struttura a sé, propensa alla sedizione. Quattro anni dopo fu regolamentata in tutto l’Impero l’esazione delle imposte su base semestrale, impedendo, quanto meno formalmente, l’esercizio del diritto, altrimenti fino ad allora riconosciuto di fatto, al ricorso alla riscossione personale dei tributi da parte di personale e funzionari locali. Un elemento, quest’ultimo, che incentivava corruttele e arbitri di ogni genere poiché ai delegati tributari era concesso un margine ampio di discrezionalità nel definire importi e modalità di pagamento. Seguirono alcune timide – e in parte disattese – riforme dei regimi fondiari, nel tentativo di spezzare il latifondo assenteista, quanto meno in certe regioni. Nel 1839 il sultano Abdul Mejid I introdusse un complesso di disposizioni legislative, tra di loro coordinate, che comprenderanno, con le ulteriori integrazioni, intervenute nel corso dei decenni successivi, garanzie a tutela dei sudditi ottomani indipendentemente dalla loro origine; l’uniformazione del sistema bancario e la sua centralizzazione; la riorganizzazione dell’esercito imperiale, ora ricondotto al controllo diretto di Costantinopoli, attraverso un sistema regolamentato ed unificato di reclutamento, l’inquadramento e la mobilitazione delle truppe nonché il tramite della leva obbligatoria come forma prevalente, ancorché non esclusiva, di selezione della truppa; l’adozione e la diffusione di simboli comuni, indicanti un’identica appartenenza, quella alla “nazione ottomana”; la ristrutturazione del circuito finanziario, sul modello francese; la revisione radicale dei codici, sia di quello civile che di quello penale, anche qui nel solco dell’esperienza napoleonica; l’introduzione del parlamentarismo, che sarebbe stato sancito dall’avvio dei lavori del primo Parlamento ottomano nel 1876; i ripetuti sforzi per arrivare ad un sistema sufficientemente integrato di offerta di istruzione pubblica, insieme all’incentivazione alla nascita e allo sviluppo di università e accademie nazionali; l’abolizione dell’Jizya, l’imposta sulla capitolazione per i non musulmani, i Dhimmi, e l’unificazione di significativi aspetti del sistema fiscale ed esattoriale nonché, infine, l’autorizzazione, per i non appartenenti alla comunità dei credenti musulmani, all’accesso a funzioni e a ruoli pubblici; la costruzione di ferrovie e di ampie vie di comunicazione, insieme all’introduzione di un codice delle opere pubbliche; la nascita della Borsa di Istanbul, il superamento del sistema delle corporazioni artigiane e la trasformazione delle pratiche relative alle funzioni della pubblica amministrazione, cercando di sradicare la diffusissima corruzione, le prebende, la compravendita dei titoli pubblici, le guarentigie ingiustificate, il nepotismo cronico. Più in generale, l’articolato sistema di riforme cercò di fare fronte ai mutamenti imposti dall’aggressività occidentale, alla divisione europea di ispirazione coloniale del Mediterraneo e poi dell’Africa, incoraggiando uno spirito propendente all’«ottomanismo», laddove in tale modo si cercava di trovare punti di comunicazione, scambio e integrazione tra musulmani e non musulmani, assecondando il principio liberale di eguaglianza dinanzi alla legge. Una suggestione, quest’ultima, derivata dal confronto competitivo con lo sviluppo dei grandi paesi a vecchia e nuova vocazione imperiale, come la Francia, la Gran Bretagna ma anche le terre tedesche. Non di meno, poiché il vero metro di giudizio veniva dato da ciò che erano riusciti ad ottenere questi ultimi, attraversati dallo spirito e dall’impatto della rivoluzione industriale, anche sul versante dei simbolismi si esercitarono tentativi di sradicare vecchie abitudini (come l’uso del turbante, ora sostituito dal fez, o il ricorso all’abbigliamento occidentale). Nel 1856 un editto del sultano Abdul Mejid si impegnò nel senso della piena eguaglianza legale di tutti i membri dell’Impero, mentre il sultano Abdulaziz, nel 1869, con la «legge sulla nazionalità», sancì la fine del sistema delle Millet, creando definitivamente una comune cittadinanza ottomana, a sé rispetto alle preesistenti divisioni di ordine religioso, linguistico ed etnico. Il varo della Costituzione ottomana (Kanûn-ı Esâsî) il 23 novembre 1876, nel limitare le prerogative autocratiche del sultanato e nell’istituire un parlamento bicamerale, con una Camera elettiva, ricollegava il complesso delle norme introdotte in trent’anni a un impianto costituzionalistico. L’ascesa al potere del sultano Abdul-Hamid II, nell’agosto di quell’anno, comportò tuttavia un brusco e repentino stallo nel processo in atto. Al progetto neo-ottomano l’autocrate illiberale, che non credeva nella praticabilità di un tale percorso, contrappose seccamente l’idea di un reviviscente califfatto musulmano. Sta di fatto che, al di là delle diverse sensibilità dei singoli governanti, lo sforzo verso l’universalismo dei diritti formali profuso da alcuni tra di loro si scontrava comunque con il permanere delle tendenze al particolarismo comunitario e tribale. L’impegno che il centro politico ottomano infondeva per cercare di trovare una sintesi tra i diversi territori, creando una nuova fedeltà su basi moderniste, si doveva infatti misurare con il nazionalismo sempre più pronunciato, quando non apertamente istigato dalle potenze occidentali, delle popolazioni arabe, della comunità curda, di quella armena, dei greci, dei popoli slavi e degli stessi ceppi turchi. Non di meno, lo svilupparsi di un circuito scolastico che ricalcava i modelli europei, diede i natali a quello che sarebbe divenuto un vero e proprio soggetto politico, il gruppo dei Giovani Turchi, di fatto costituitosi nel 1889. Sincronici a questi eventi sono poi il movimento arabo della Nahda (il «risveglio», la «rinascita»), che si interrogava sulla necessità di una riforma civile, intellettuale e quindi sociale nei territori di insediamento arabofono e l’avvio del fenomeno sionista nella Palestina ottomana. La «questione armena» si inserisce quindi a pieno titolo dentro queste dinamiche di lungo periodo dove, alle aspettative alimentate dalle stesse autorità centrali, spesso poi deluse dai e nei fatti, si sommano gli appetiti stranieri. Non a caso il suo definirsi come tema e problema per Costantinopoli si innerva all’interno dei processi di penetrazione straniera. Per lungo tempo, infatti, sarà d’uso comune l’utilizzare il rimando strumentale alla questione umanitaria della difesa dei diritti delle minoranze cristiane, e in particolare di quelle armene, per camuffare le motivazioni economiche e territoriali che spingono le nazioni europee oramai a condizionare dall’interno quanto avviene entro i confini ottomani. La prima occasione di intervento è quella che coinvolge la finanza, e in particolare il debito lievitante dell’Impero nei confronti delle nazioni occidentali. Per far fronte a questa situazione e favorire gli investimenti, i creditori europei costituiscono un consiglio di amministrazione del debito pubblico, che percepisce direttamente parte delle imposte, intervenendo direttamente nelle dinamiche della riscossione e della destinazione delle risorse pubbliche. L’Impero guadagna dalla maggiore stabilità il ritorno degli investitori, in particolare di origine tedesca, ma perde in significativi aspetti della sua autonomia. Comincia così un rapporto che culminerà nell’alleanza militare e politica della Prima guerra mondiale tra Berlino e Costantinopoli. Nel 1883 il generale Colmar von der Goltz, a suggello di tale processo, diventa consulente di Abdul Hamid II per la riforma dell’esercito imperiale e dal 1884 cominciano le vendite di armi e di tecnologie tedesche. Nell’ottica di contrapporsi all’oramai debordante Impero russo, il barone tedesco arriva in Turchia su sollecitazione dello stesso sultano. Vi trascorrerà ben dodici anni, divenendo feldmaresciallo delle armate imperiali e Pasha, carica onorifica per un non musulmano che indicava tuttavia la diretta ed esclusiva dipendenza dall’autorità suprema della Sublime Porta. Von der Goltz riuscirà comunque ad introdurre significativi miglioramenti nelle dotazioni delle forze armate ottomane, permettendo a queste di fermare alle porte di Atene la guerra greco-turca del 1897, per l’indipendenza di Creta (conflitto durato poco meno di un anno, al quale presero parte anche alcuni garibaldini italiani), durante la quale la Russia dello zar Nicola II aveva minacciato l’invasione dell’Anatolia. Dal 1888 la Deutsche Bank sarebbe quindi entrata nella società delle ferrovie ottomane, per costruire la linea Costantinopoli-Bagdad. Le maggiori potenze europee cercavano in tale modo di ottenere vantaggi dal succedersi di simili interventi, non soltanto a scapito dell’integrità territoriale, politica e giurisdizionale dell’Impero, ma anche, e spesso soprattutto, nell’ambito della lotta per la supremazia economica continentale.
(3/continua)
Claudio Vercelli
(3 maggio 2015)