L’antifascismo necessario

lucrezi Non mi stupisce, francamente, la notizia, riportata dall’edizione mattutina di questo notiziario, lunedì scorso, che un signore, già militante del MSI e poi di Alleanza Nazionale, tuttora grande ammiratore del fascismo (“un periodo che ha dato lustro all’Italia”) e di Mussolini (al punto da recarsi periodicamente in pellegrinaggio alla tomba del Duce, e da avere dato al proprio figlio il nome di Angelo Benito), abbia scelto di candidarsi, per le prossime elezioni del Consiglio Regionale della Campania, nelle file del Partito Democratico, senza vedere in ciò nessuna contraddizione, e senza, a quanto pare, che nessuno abbia avuto niente da ridire.
Se il fascismo ha potuto godere, per lunghi anni, di un larghissimo consenso nell’opinione pubblica del Paese, vuol dire, evidentemente, che ha saputo interpretare egregiamente alcune caratteristiche profonde del nostro popolo, dure a morire, anche senza bisogno di ricorrere a manganello e olio di ricino. “Come si fa a non tiranneggiare su un popolo di servi?”, è la risposta, probabilmente leggendaria, che il Duce avrebbe dato a un giornalista straniero, che lo avrebbe accusato di fare il tiranno.
Di fronte a queste tardive riabilitazioni del regime, sempre più esplicite, sempre più trasversali, credo che sia inutile cercare di riesumare (sarebbe, comunque, impresa vana) il vecchio antifascismo militante, che in questo Paese, per almeno trent’anni, ha funzionato soprattutto come un verbo rozzo e grossolano, come una finta e logora patente di democrazia, che ha permesso anche a intolleranti, violenti e fanatici di ogni tipo di alzare la voce, infilandosi nel grande calderone del cd. ‘arco costituzionale’: un club di dubbia natura, la cui tessera a buon mercato non richiedeva nessuna autentica fedeltà ai valori della Costituzione repubblicana, ma semplicemente una comoda dichiarazione di antifascismo, che pareva bastare, di per sé, a legittimare qualsiasi tipo di prassi e ideologia, anche le più oscure e sanguinarie. D’altra parte, un grande democratico, come Leo Valiani, disse di riconoscere, nella folla riunita a oltraggiare i cadaveri del Duce e della sua compagna, non già gli avversari del regime, ma coloro che, fino al giorno prima, vi si erano inchinati. C’è sempre stato, nell’antifascismo italiano, fin dall’inizio, molto fascismo.
Sappiamo bene che moltissimi tra i nostri padri e nonni – certamente la grande maggioranza – hanno sinceramente creduto nel regime, visto come completamento degli ideali risorgimentali, come forza di modernizzazione del Paese ecc., e sarebbe certamente ingiusto giudicarli col nostro odierno metro di valori. Comprendiamo anche come il popolo italiano, drogato da anni e anni di martellante propaganda trionfalistica, abbia finito per accettare passivamente anche gli aspetti più sinistri del regime, a seguito della scellerata alleanza con l’alleato nazista. E capiamo pure come molti, nel ’43, abbiano provato un senso di disgusto verso il comportamento della corona, e abbiano preferito continuare comunque la loro battaglia, anziché tradire. Meglio loro, probabilmente, almeno sul piano umano e dell’onore personale, di molti di quelli di Piazzale Loreto.
Ma la comprensione che va riservata agli italiani degli anni ’30 e ’40 non può essere estesa, a mio avviso, in nessun modo, a chi oggi, nel 2015, si dica ammiratore del Duce. Perché tale ammirazione viene manifestata in un momento storico in cui c’è una consapevolezza che allora non c’era. In cui si sa cosa è avvenuto in Libia e in Etiopia, e poi in Polonia, in Ucraina, a Roma: si sa da chi e a chi sono stati consegnati e dove sono stati condotti gli ebrei italiani traditi dalla loro patria e abbandonati dai loro concittadini. E non è ammissibile, soprattutto, distinguere – come fanno gli ammiratori ‘democratici’ del Duce – un presunto fascismo ‘buono’, durato fino alla metà degli anni ’30, da una sua presunta, successiva degenerazione, seguita al Patto d’acciaio. Mai evoluzione è stata più naturale, logica. Mai burattino, nelle mani di un burattinaio, ha fatto meno resistenza.

Francesco Lucrezi, storico

(6 maggio 2015)