Il genocidio armeno: un quadro d’insieme / 4
L’insediamento armeno in terra ottomana, alla fine dell’Ottocento, si divide in tre grandi macro-aree: l’Anatolia orientale e meridionale, la Cilicia e le comunità urbane, dove però risiedono perlopiù le élite intellettuali e sociali. Storicamente, l’Anatolia è stata per secoli una regione caratterizzata da un mosaico etnico, linguistico, religioso.
La sua posizione di raccordo tra Oriente e Occidente l’ha infatti da sempre caratterizzata come centro di scambi e di transiti tra culture e popolazioni diverse, come anche luogo elettivo di scontri e di conflitti. Le frizioni, infatti, sono quelle che tipicamente caratterizzano una regione di raccordo, dove alla stanzialità di alcune comunità si accompagna la transitorietà o il nomadismo di altre. Quindi, il sovrapporsi delle seconde alla prime, le dinamiche acquisitive se non violentemente appropriative, il confronto per la titolarità di beni – a partire dalle terre – che non riescono ad essere di tutti ma sono rivendicati come esclusività da alcuni, costituiscono, nel loro insieme, l’origine delle tensioni che ne attraversano una storia spesso violenta.
Non di meno, a ciò va aggiunta l’ibridazione inevitabile che il transito degli uni produce, come effetto imprevedibile nella natura degli esiti ma senz’altro certo nei fatti, sugli altri. E viceversa. La varietà dei gruppi in quest’area ha quindi reso difficile l’emergere omogeneo di uno solo di questi, benché gli armeni costituissero, prima del genocidio, il 40% della popolazione nell’area che comprendeva i Vilayet, ossia i distretti in cui l’intera regione era divisa, di Van e Bitlis. Nella stessa area, tuttavia, come anche nelle zone più meridionali, si concentravano le popolazioni curde, organizzate in tribù distinte al loro stesso interno, a volte dalla lingua come dall’adesione a pratiche eterodosse rispetto al comune ceppo religioso. Gli altri gruppi di osservanza musulmana erano i turcomanni e gli arabi, così come una parte della popolazione greca del Ponto era anch’essa di tale religione. Infine, un gruppo di cristiani scismatici era costituito dagli assiri. La questione di fondo non era tuttavia dettata dalle differenze culturali, linguistiche o religiose, bensì dall’esistenza – o meno – di terreni di mediazione tra interessi diversi, altrimenti destinati a dare corso a conflitti irrisolvibili. Un ambito di persistenti tensioni era costituito senz’altro dalle politiche adottate dai due grandi imperi confinanti, nei quali la popolazione armena si distribuiva, quello ottomano e il russo. Nelle regioni dell’Impero zarista confinanti con l’Anatolia orientale le popolazioni musulmane (i tatari, i circassi e i ceceni) erano state fatte oggetto di un vero e proprio scambio. A seguito del conflitto tra le due grandi entità politiche e all’acquisizione da parte dei russi, nel 1828, delle province armene transcaucasiche, la separazione tra le comunità armene ottomane e quelle turche si fece quindi più accentuata, in ciò consolidata dall’espulsione, voluta da San Pietroburgo, di una parte delle minoranze musulmane.
La Russia, peraltro, accomodandosi all’ambigua politica delle capitolazioni praticata dalle potenze europee, aveva promesso agli armeni ottomani il suo costante interessamento, tradottosi poi nell’appoggio alle istanze autonomiste. In realtà, dietro questa disponibilità, c’era un calcolo di interesse preciso, puntando ad ottenere vantaggi territoriali, o comunque protesa a costruire egemonie di fatto, su territori sottoposti alla giurisdizione ottomana. In altre parole, si trattava di lavorare ai fianchi l’avversario, utilizzando a proprio favore quanto e quanti potevano tornare utili sul momento. A suggello di questa ambiguità, che si traduceva in promesse all’esterno e repressioni nei propri territori, basti constatare che lo zarismo sancisce, in sei anni, tra il 1897 e il 1903, nell’ambito delle sue politiche oppressive, la chiusura delle scuole armene e la confisca dei beni appartenenti alla Chiesa apostolica. Non di meno – ed è questa un’altra strozzatura nell’evoluzione delle cose in quelle regioni – la presenza, sempre più interessata, dei russi, aumenta il tasso di attenzione verso la «questione armena». Tragico sarà quindi il raccordo tra la disintegrazione della presenza ottomana nell’Europa balcanica, dopo il Congresso di Berlino e l’intrusività russa in Oriente. In tale quadro, dove i protagonisti intercontinentali utilizzano le minoranze come strumento per le proprie mire, la concentrazione di armeni cristiani e curdi musulmani nelle regioni orientali dell’Anatolia viene sfruttata dal sultano Abdül Hamid II, a partire dai primi anni della sua reggenza (durata dal 1876 al 1908), per cercare di rafforzare il controllo imperiale nella regione, tanto strategica quanto difficile. Il gruppo dirigente ottomano sa che il nuovo banco di prova, dopo la perdita dei Balcani, sarà l’Anatolia stessa. Al riguardo non può né intende concedere nulla, ritenendola invece come strategica per i residui assetti imperiali. Ad una decisa azione di repressione contro le ripetute sollevazioni indipendentiste curde, segue quindi un tentativo di detribalizzarne l’ossatura comunitaria.
Fondamentale, in tale senso, è l’inserimento di alcuni esponenti delle élite curde nella gestione dell’amministrazione statale. Più che una concessione è un esercizio di compromissione, fatto passare per corresponsabilizzazione. A ciò si accompagna la creazione del corpo degli «Hamidié» (Hamidiye Alaylari, i reggimenti hamidiani), organizzati come unità di cavalleria etnicamente omogenee. Il calcolo del sultano è di imbrigliare la carica eversiva delle tribù combattenti curde, le quali hanno un’antica tradizione di combattimento, in strutture in grado di porsi al servizio del sovrano. I Bey, i capi locali curdi, vengono quindi convocati nel 1891 a Costantinopoli dove, accolti con gli onori del caso, si pongono in grande numero al servizio delle autorità. L’oggetto dello scambio politico non è fedeltà di contro a concessioni territoriali bensì sudditanza in cambio di licenza al ricorso alla violenza contro le altre minoranze. Una cinquantina di leader curdi accettano comunque, benché le reali intenzioni turche rimangano, nella loro essenza, non conoscibili fino in fondo. Nei primi mesi dell’anno successivo, malgrado le resistenze espresse da alcuni capi territoriali, che vedono con preoccupazione qualsiasi politica che possa precludere alle loro comunità spazi di autonomia, già una quarantina di battaglioni hamidié, con un forza di seicento uomini ciascuno, sono quindi disponibili. Nel luglio del 1893, infine, la cavalleria curda avrà raggiunto i 34.500 elementi, perlopiù volontari, per un complesso di cinquantacinque reggimenti suddivisi in duecentoventinove squadroni. Il sultano e si suoi uomini, ovviamente, si impegnano a fare sì che queste unità militari seguano un training di addestramento e, soprattutto, siano sottoposte al costante monitoraggio delle autorità centrali. L’ufficialità viene composta, almeno in parte, da militari professionisti ottomani. La struttura gerarchica, quella del Quarto corpo d’armata, con sede a Erzindjan, nell’Anatolia centro-orientale, vedrà al suo comando un turco, il maresciallo imperiale Mehmed Zeki Pasha, con un generale curdo per ognuno dei quattro reggimenti di cui si compone ogni brigata, quattro colonnelli per ogni reggimento (due curdi e due turchi) e così via.
Laddove ai turchi viene affidato il compito di controllare i curdi. Da subito gli osservatori stranieri, a partire dalle legazioni diplomatiche italiane, presenti nella zona, segnalano anche la presenza tedesca nell’organizzazione dei reparti nonché la pericolosità di questi per le popolazioni civile armene. Queste stesse forze saranno infatti ampiamente utilizzate durante i massacri contro le comunità armene nel corso degli anni 1894-96, in alcuni casi in aperto contrasto con la situazione di pacifica convivenza altrimenti instauratasi tra curdi e armeni in alcune aree del territorio anatolico. La formazione dei reparti di hamidié risponde infatti da subito alla strategia ottomana di spopolare l’alto altipiano anatolico della presenza armena. La quale si traduce in una serie di atti, ripetuti nel corso di quel tragico triennio, che contemplano la razzia dei beni cristiani, l’incendio dei raccolti, la distruzione dei villaggi, l’ulteriore riduzione della già limitata libertà di circolazione per le popolazioni locali, il rapimento dei bambini per arrivare ai massacri di civili e le conversioni forzate in massa. Si tratta di una somma di atti quotidiani basati sulla spietatezza e la crudeltà, con un corredo di prevaricazioni continue, di violenze ossessivamente ripetute il cui obiettivo, nella sistematicità con la quale vengono perseguite, è di ingenerare prima insicurezza e poi paura tra le popolazioni locali, spingendole infine ad abbandonare, un gruppo dopo l’altro, i luoghi di insediamento. Le autorità ottomane perseguono la meta di mutare gli equilibri socio-demografici di quelle terre in accordo con i bey curdi compromessi con Costantinopoli, convogliando la fuga dei molti verso le aree urbane occidentali, dove peraltro non trovano altra accoglienza che non sia quella di profughi “interni” all’Impero, avendo perduto buona parte dei propri beni. In questa strategia dello spostamento coatto entrano in gioco alcuni fattori fondamentali. Un aspetto, denunciato ripetutamente dagli osservatori stranieri presenti in quelle terre, è l’invidia sociale che sembra contrapporre i gruppi curdi a quelli armeni. Questi ultimi, dopo le riforme fondiarie introdotte a metà dell’Ottocento, erano divenuti, in alcuni casi, proprietari terrieri, ancorché di appezzamenti di piccole dimensioni. La loro sedentarietà era stata quindi ulteriormente incentivata, favorendo la preesistente vocazione alla stanzialità, la qaule già dal XVII secolo era divenuta una costante delle comunità armene in Anatolia. Sul versante curdo, invece, i benefici non erano stati i medesimi. Alcune tribù ritenevano semmai di avere misurato un peggioramento della propria situazione socioeconomica. L’attribuirne la responsabilità agli armeni divenne quindi un facile gioco al capro espiatorio. Gli insediamenti si trasformano pertanto nell’obiettivo delle razzie tribali. Le quali, per inciso, non si esercitano solo contro gli armeni, coinvolgendo semmai anche altre minoranze, ma identificando in questi ultimi l’obiettivo più rilevante. I reparti di cavalleria hamidié, armati di fucili moderni, addestrati ad operazioni su ampia scala – che in alcuni casi si traducono in veri e propri rastrellamenti contro i civili -, rivestiti di una uniforme che dà loro una legittimazione e coperture ufficiali per le violenze che vanno compiendo, consapevoli del beneplacito delle autorità di Costantinopoli, si muovono adesso con la certezza non solo dell’impunità ma anche dell’essere parte di un progetto più ampio, quello che punta all’omogeneizzazione dell’Anatolia. Nel mentre, il regnante Abdul Hamid II, durante i suoi lunghi anni di reggenza dell’Impero, deve infatti fare fronte a due spinte differenti, tuttavia convergenti verso un medesimo obiettivo, ossia il ridimensionamento territoriale del sultanato: da un lato deve fronteggiare il risveglio nazionale che attraversa i diversi gruppi e le distinte comunità che compongono il mosaico imperiale, causandone uno stato di instabilità permanente; dall’altro deve rispondere alle numerose pressioni provenienti dalle potenze europee, le quali, sfruttando sia la questione delle Tanzimat che delle capitolazioni, investono politicamente sul ruolo delle minoranze per proseguire nella politica delle pesanti interferenze su Costantinopoli. A questa situazione il sultano risponde ben presto con una politica di violenta repressione e contrapposizione etnica, che sfocia nei massacri di fine Ottocento. Uno dei primi risultati della politica hamidiana è infatti la creazione di quelle «regioni orientali» che costituiscono l’oggetto del contendere: con la nuova divisione amministrativa dell’Anatolia nelle province di Van, Bitlis, Erzurum, Mamuret-el-Aziz e Diarbekir, la popolazione armena di ogni provincia risulta in minoranza rispetto agli altri gruppi. La conseguenza è che tali province non possono definirsi armene, non almeno dal punto di vista della composizione socio-demografica prevalente, e quindi avanzare richieste di tutela dei propri interessi, adesso minacciati anche dalle pressioni curde. In quei territori, al processo di depauperamento degli insediamenti e di pressione per il trasferimento coatto già da tempo va rispondendo l’azione di alcuni gruppi armati, che cercano di sollevare la popolazione armena organizzando azione di risposta sia alle violenze dei reparti di cavalleria curda sia alla politica di repressione e oppressione ottomana. Nell’estate del 1894, nel distretto anatolico centro-meridionale di Sason, a forte presenza armena, collocato tra il lago di Vat e la regione di Harput, i dissidi armati esplodono quindi in una serie di massacri, condotti dalle truppe hamidié e dai reparti regolari dell’esercito ottomano, che determinano l’assassinio di alcune migliaia di civili armeni. All’origine della contesa, oltre al vortice crescente delle violenze intercomunitarie, vi è soprattutto il rifiuto che le comunità armene avanzano dinanzi al sistema della doppia tassazione, la quale prevedeva il pagamento dell’imposta al sultano ma anche di una tassa di “protezione”, dovuta ai gruppi curdi. La repressione delle proteste da parte di questi ultimi è senza respiro, inducendo la diplomazia internazionale a registrare prima e a denunciare poi gli eventi in corso. Denunce e atti d’accusa dai quali deriva la richiesta di nuove riforme, alle quali si opporrà poi lo stesso Impero zarista, timoroso che il “contagio” delle rivendicazioni possa estendersi alle regioni caucasiche, dove risiede la minoranza armena russa. Gli stessi armeni, tuttavia, non rimangono con le mani in mano. Già con la seconda metà dell’Ottocento, infatti, seguendo i modelli di aggregazione e di militanza che vanno diffondendosi un po’ in tutta l’Europa e in parte dell’Asia, hanno dato vita ad organizzazioni politiche che intendono tutelare i propri interessi. Data al 1887 la nascita, in Svizzera, del Partito socialdemocratico Hunchakian, (conosciuto anche come Hentchak, nome mutuato dal periodico Hunchak, «campana» o «appello» alla coscienza armena, per la lotta alla libertà e all’autodeterminazione).
È del 1890, invece, la costituzione della Federazione rivoluzionaria armena a Tiflis, in Georgia. L’ispirazione delle formazioni politiche armene è di stampo socialista e marxista, con forti accentuazioni nazionalistiche, non sfuggendo alle suggestioni del tempo, dove alla lotta per l’indipendenza nazionale è legata a quella per la trasformazione sociale. Quando il 30 settembre 1895 a Costantinopoli il partito Hentchak dà vita ad una manifestazione di sostegno per le popolazioni anatoliche la repressione armata delle forze ottomane si trasforma in un nuovo massacro. Mentre nella capitale si sussegue la nuova ondata di violenze, che da subito diventa “caccia all’armeno”, il sultano prima annuncia nuove concessioni (17 ottobre) poi lascia che la sollevazione “spontanea” delle comunità musulmane si trasformi in tutta l’Anatolia in un pogrom di gigantesche dimensioni. Tra l’ottobre e la fine di dicembre 1895, infatti, nelle province di Trebisonda, Erzurum, Bitlis, Van, Harput, Diarbekir, Sivas, Aleppo, Adana e Ankara, le autorità ottomane favoriscono lo scontro armato, sfruttando l’attivismo di alcuni gruppi armati per attaccare interi quartieri armeni, con massacri e saccheggi. I corpi hamidié e le truppe regolari si uniscono a bande di briganti locali, spesso curdi. La procedura è la stessa in ogni occasione. La popolazione musulmana è istigata dalle forze governative contro quella armena. In non pochi casi vengono distribuite armi. I massacri cominciano nella tarda mattinata, nei bazar e nei mercati, poi si estendono ai quartieri, colpendo indiscriminatamente la popolazione e passando poi al saccheggio di abitazioni e negozi. Le sole eccezioni al ruolo attivo delle autorità locali nello spingere la popolazione musulmana alla violenza sono nei velayet di Ankara e Adana, a Mersina, Agi, Cesarea: qui i governatori disperdono la folla aizzata e armata contro gli armeni. Dopo i massacri, i sopravvissuti sono arrestati e torturati, per ottenere dichiarazioni che avvalorino la tesi del complotto. Nell’ottobre, la rivolta armena di Zeitun, organizzata da gruppi hentchakisti, si risolve senza spargimento di sangue, grazie all’intervento diplomatico, ma fornisce un forte movente per l’ulteriore repressione hamidiana. Che si sarebbe di nuovo manifestata nel volgere di pochissimo tempo.
(4/continua)
Claudio Vercelli
(10 maggio 2015)