…Domenico
La frase estrapolata dal Talmud (Sanhedrin 37a), che spesso si sente ripetere in occasione delle riflessioni sulla memoria degli stermini, può assumere significati anche molto vicini alla nostra vita quotidiana.
“Chi salva una vita è come se salvasse un mondo intero” è molto più di un’invocazione buonista: significa segnare una linea di discrimine etico fra il bene e il male. La vicenda dello studente padovano Domenico Maurantonio, che ha perso la vita in una dinamica tragica e oscura, ci induce a riflettere nel profondo sui nostri comportamenti quotidiani e sui modelli educativi che stiamo adottando; il nodo centrale mi sembra sia il valore che si deve attribuire alla sacralità della vita. Domenico studiava al liceo scientifico Ippolito Nievo.
La sede è la stessa che nell’Ottocento ha ospitato l’Istituto Convitto Rabbinico di Padova: il medesimo antico scalone, le stesse stanze che hanno visto aggirarsi grandi maestri come Lelio Della Torre, Samuel David Luzzatto, Marco Mortara, Lelio Cantoni e molti altri. In quei corridoi si instaurano oggi fra gli studenti dinamiche che noi adulti non riusciamo a comprendere se non in maniera superficiale. Amicizie, contrasti, amori, indifferenza. A volte scherzi innocui, e a volte gesti che richiamano il bullismo. Quando si è liceali la vita può essere vissuta in maniera leggera, anche molto leggera, e de-responsabilizzata. Non sembra più attuale il tempo in cui i giovani interpretavano la vita con la tragicità delle riflessioni che tanto affascinavano la gioventù romantica: chi legge più con la dovuta attenzione il Goethe dei Dolori del giovane Werther o il Foscolo delle Ultime lettere di Jacopo Ortis? Quel che colpisce oggi, nella morte del liceale, è l’apparente superficialità con cui viene trattato il tema della vita.
È il silenzio che è seguito alle prime, sconsiderate parole che sono state spese in pubblico dagli adulti. I compagni di scuola non parlano, e se parlano è per ripetere ossessivamente una versione reticente, quando non omertosa, che semplicemente non può essere vera. E i genitori dei compagni non mandano segnali pubblici di nessun tipo. Non solo non si registra una effettiva e partecipata solidarietà umana per una famiglia sconvolta, ma non c’è neppure un accenno di riflessione comune sulla devastante tragedia che è accaduta. Le risposte che si ricevono in questi giorni dagli adolescenti sulla loro interpretazione di quel che può essere accaduto sono allarmanti: in genere concordano sul fatto che ci deve essere stato un incidente a seguito di un gioco o di uno scherzo, ma di fronte alla domanda relativa al silenzio e all’omertà (concetto importante) la risposta è semplice e a-morale: il gruppo ha deciso una linea e non c’è adulto in grado di penetrare nel muro di difesa. Se è stato un incidente, per l’appunto si tratta di un incidente: nessuno intendeva fare del male a qualcuno; purtroppo è capitato, ma non è necessario che qualcuno se ne assuma la responsabilità (altro concetto decisivo), pagandone imprevedibili ma ovvie conseguenze penali.
Mi è capitato di sentire un giovane che ha paragonato l’accaduto a un episodio di un serial poliziesco televisivo, in cui una situazione analoga (la morte accidentale di una persona) vedeva il responsabile descritto come un personaggio che non si era reso conto della gravità di quel che aveva fatto. Solo che il telefilm si interrompe con la pubblicità, mentre quel che è accaduto a Milano finisce con la morte di un ragazzo vero. È come se nella percezione del reale, le nuove generazioni, (dis)educate da televisioni e soprattutto da videogiochi in cui la violenza e la morte sono solo fiction, non riuscissero più a riconoscere la linea di discrimine fra la sacralità della vita e l’irreparabilità della morte. Naturalmente non si può generalizzare, ma il problema sembra reale e urgente. Se ci si appresta a combattere una guerra contro l’ISIS, un gruppo che pratica la morte come ideologia positiva, o si parte da una base morale comune e alternativa a questa pseudo-religione, che vede la vita in tutte le sue manifestazioni come bene supremo da difendere, oppure andiamo inevitabilmente a perdere la guerra per mancanza di convinzione, per debolezza spirituale. Nelle stanze di quel che fu il Collegio Rabbinico di Padova si insegnava – fra i valori fondamentali dell’ebraismo – il cosiddetto “pikuach nefesh”, il principio per cui di fronte al pericolo della perdita di una vita umana chiunque può trasgredire a qualsiasi precetto o legge. Io spero che questo principio possa essere compreso nel profondo dai compagni di Domenico e dai loro famigliari, e che porti consiglio. Mi sembra una scelta necessaria per il “qui e ora” di noi tutti.
Gadi Luzzatto Voghera
(29 maggio 2015)