… gher

Ci sono persone, al mondo, che sono segnate dal destino a essere guide dell’umanità, nate per insegnare e giudicare. Mi è piaciuta molto l’ultima citazione di rav Benedetto Carucci Viterbi: “Chi vede l’errore di un’altra persona dovrebbe, invece di additarla o criticarla, riflettere su quanto egli stesso sia sempre sul punto di poterlo commettere” (Rav Wolbe sulla parashà di Naso). Ma naturalmente, se uno è convinto di essere ebreo perfetto al cento per cento non riesce a immedesimarsi, ad esempio, in un gher. La posizione del gher nella comunità ebraica è una cosa che mi ha sempre suscitato imbarazzo e perplessità, quesiti e crisi. Come si sente un gher? Come si integra? In che area della sinagoga deve star seduto, in prima o in ultima fila, o in mezzo agli altri? Come si considera, anche dopo tanti anni di vita ebraica convinta e sentita? E gli altri, come lo vedono, come lo sentono, come lo giudicano? Come lo aiutano nel suo percorso? Lo invitano mai a passare uno shabbat a casa loro? Lo hanno mai invitato a un seder? E perché continuiamo a definirlo, o anche solo a pensarlo gher, visto che si sa che non dovremmo ricordargli – e ricordarci – che era/è un gher? Su questa rubrica, rav Roberto Della Rocca (con il quale da anni prosegue un simpatico e fertile dialogo a distanza) aveva risposto con un illuminante aleftav che declinava varie modalità di rapporto con il gher. Continua tuttavia a martellarmi nel cervello il quesito se il gher debba di continuo essere sotto la lente di ingrandimento dell’ebreo perfetto che lo riprenda, magari indirettamente, se possibile parlando con altri dei suoi errori, svergognandolo in pubblico, umiliandolo mentre sta compiendo una mitzvah al tempio, in modo che, assai giustamente, si senta carente e colpevole e bisognoso di reprimende che lo rendano migliore di quel che è. Perché l’ebreo perfetto si sente perfetto soltanto quando, con il gher, si comporta così. Tutto questo è ben chiaro alla mia mente. Ma in questa mia mente rimane il quesito complementare, quello sull’ebreo perfetto. L’ebreo che si sente tale solo nel momento in cui vede l’errore nell’altro e non si rende conto di starne facendo molti, imperdonabili e arroganti, di suoi. Allora, a quel Maestro rigoroso che tempo fa ci insegnò che bisogna sempre riprendere un ebreo che sbaglia, ripongo le stesse domande di allora: chi ha la certezza di poter insegnare qualcosa all’altro da una posizione di vantaggio, ossia di perfezione morale e halakhica? chi conosce il modo migliore per riprendere il prossimo con una sensibilità tale che non lo offenda e che anziché migliorarlo lo irrigidisca in una posizione di risentimento e di rancore? chi ha la sensibilità di farlo nel momento e nel luogo privato che non esponga l’altro al chiacchiericcio malevolo (lashon hara‘) del mercato rionale. Di fronte a situazioni del genere, chi deve chiedere scusa all’altro di una imperdonabile ‘averà (trasgressione), il gher o l’ebreo perfetto? E basterà un Kippur a scioglierlo dal cappio che si è infilato al collo? Tutta la mia solidarietà all’ebreo con la sua gheritudine nel passato. Tutta la mia pietà all’ebreo che vorrebbe essere perfetto e ancora non ha capito come fare per realizzare il suo sogno.

Dario Calimani, anglista

(2 giugno 2015)