Il genocidio degli armeni: un quadro d’insieme
La decisione di organizzare lo sterminio sistematico delle comunità armene nell’Impero ottomano ha una sua tempistica così come logiche proprie. Per capire l’una e le altre occorre contestualizzare l’insieme degli eventi che si susseguiranno tra il 1915 e il 1916. L’ambito temporale è infatti quello della Prima guerra mondiale.
Non è un caso, peraltro, trattandosi di un evento collettivo entro il quale si elidono sia le abituali salvaguardie garantite ai civili, ed in particolare alle minoranze, sia le distinzioni tra ambito civile e attività militari. Il generarsi un po’ ovunque, nei paesi che sono chiamati in causa dai combattimenti, di progressive condizioni di eccezione e di emergenza permette di sospendere le garanzie costituzionali e di legge che, altrimenti, in tempo di pace dovrebbero impedire o attenuare il ricorso alla violenza. In questo caso il riferimento è e rimane comunque ancorato esclusivamente alla violenza di Stato, quella che è esercitata dagli apparati pubblici, eserciti, polizie, amministrazioni legali, deputate formalmente a ricorrere ad essa quando ritengono che se ne siano determinate le circostanze e l’opportunità.
Il genocidio degli armeni è da intendersi quindi come un atto di Stato, essendo il prodotto di una volontà espressa dalle classi dirigenti ottomane e, come tale, tradotta in una serie di scelte consapevoli, tra di loro correlate, con l’esplicito obiettivo di annientare fisicamente gli appartenenti a quel gruppo e, insieme ad essi, la cultura e la storia di cui sono depositari. A ciò ci si riferisce, quindi, quando si parla per l’appunto di «genocidio». L’occasionalità e l’eventuale discontinuità nei singoli fatti di cui si può avere notizia, non pongono in discussione la realtà delle violenze, dei massacri, delle deportazioni, succedutesi in attuazione di un piano rigorosamente preordinato.
Che poi quest’ultimo, nel momento della sua realizzazione, abbia subito dei cambiamenti, adattandosi alle circostanze del momento, è parte stessa di una pratica genocidiaria. La quale è tale proprio perché mette in relazione premeditazione, strumentazione e obiettivi all’interno di una dinamica razionalizzante, dove la questione di uccidere un grande numero di individui, tutti identificati non per ciò che fanno ma per quello che si dice che siano, non è più una questione di ordine morale ma esclusivamente operativo. L’inizio della guerra, nell’estate del 1914, origina l’allontanamento di diverse rappresentanze diplomatiche occidentali dalle originarie sedi turche. Più in generale, gli scambi e le comunicazioni tra l’interno del paese, a partire dalla penisola anatolica, e le altre comunità nazionali si fanno rarefatti o comunque filtrati dalla contrapposizione bellica. Non di meno, all’interno di questo contesto di contrazione della circolazione di notizie, anche la Turchia, così come le altre nazioni in guerra, introduce misure straordinarie, di natura restrittiva, nei confronti della libertà di movimento, di comunicazione e di scambio per le minoranze, nel suo caso quelle cristiane. La mobilitazione generale dell’esercito peraltro le coinvolge, non essendone in un primo momento escluse. Il confronto bellico che l’Impero intrattiene è quello contro la Russia zarista. Nel gennaio del 1915 le sorti sembrano già segnate dalla gravissima sconfitta che la Sublime Porta subisce a Sarikamish, nel Caucaso. In quelle circostanze, una parte ristretta del nucleo dirigente del Comitato di unione e progresso inizia a ipotizzare la possibilità di procedere all’eliminazione sistematica degli armeni, all’interno di un piano di “turchizzazione” dei territori orientali, sottoposti alla pressione e alle mire russe. Più in generale ciò che viene ideato è un processo, condensato in una decina punti – variamente attestati e comprovati, sia sul piano documentario che, più prosaicamente, dal susseguirsi dei fatti – per distruggere definitivamente i gruppi cristiani. Il primo di essi implica la messa fuorilegge delle associazioni armene, nonché l’arresto e l’uccisione degli esponenti più in vista del tessuto culturale, civile e politico delle comunità cristiane. Il secondo punto è il licenziamento dei funzionari pubblici armeni e la separazione della comunità dai luoghi di potere e di decisione, isolandola e indebolendola. Il terzo elemento è il disarmo e la confisca delle armi.
Il quarto è l’istigazione all’aggressione e alla prevaricazione della popolazione musulmana nei confronti delle minoranze. Il quinto rinvia al ricorso alle truppe regolari per controllare il corso degli eventi, impedendo o mitigando le violenze già in corso in alcuni distretti, come a Van, Erzurum e Bitlis, e incrementandole o comunque agevolandole nelle regioni di Sivas, Adana, Brussa, Ismid e Smirne. In discussione, nel qual caso, non è il ruolo dell’esercito imperiale ma l’uso ponderato, ossia spregiudicatamente calcolato, nello svolgimento della carneficina. In progressione, il sesto passaggio definisce come necessario lo sterminio degli uomini sotto i cinquant’anni, così come delle autorità religiose di base e degli insegnanti elementari, per privare quello che sarebbe rimasto della comunità armena delle sue élite locali. Non di meno, si indica nella conversione forzata delle donne e dei bambini la soluzione rispetto al problema del loro destino.
Settimo punto è la deportazione delle famiglie dei fuggiaschi e degli elementi “sospetti” di esercitare una qualche forma di opposizione. L’ottavo passaggio è l’espulsione dei giovani armeni coscritti nell’esercito ottomano, dai reparti, in attesa di poterli eliminare fisicamente. A ciò si lega quindi una logistica ed una strategia delle operazioni, che varia di territorio in territorio, in modo non solo da calcolare anticipatamente tempi e modalità degli interventi ma anche la neutralizzazione preventiva di ogni forma di opposizione. L’insieme delle disposizioni, e si tratta della decima ed ultima manifestazione di volontà, deve rifarsi, nella loro concreta attuazione, non solo ad un indirizzo unitario – e quindi ad una corresponsabilizzazione dei vertici, così come anche degli esecutori – ma anche a criteri di segretezza che debbono garantire non tanto l’intangibilità del genocidio (cosa impossibile nei fatti, trattandosi di un complesso di azioni che avverranno a cielo aperto, con debito corredo di spettatori e testimoni) quanto la sua accettabilità morale da parte della popolazione non cristiana.
Alla volontà politica che i Giovani turchi vanno così definendo si accompagnano le misure legislative e amministrative che creano l’ambito di legittimazione dell’intero percorso genocidiario. Già con i decreti per la mobilitazione generale delle truppe imperiali, alla quale partecipano anche i giovani armeni coscritti, si accompagnano le istanze di requisizione di una parte dei beni privati, giustificate dallo stato di eccezione che la guerra stava ingenerando. Nel novembre del 1914, in un processo di radicalizzazione ideologica che investe l’intera società turca, si procede all’evacuazione forzata dei villaggi armeni che si trovano in prossimità della linea del fronte orientale, dando inizio alla pratica delle deportazioni dei civili. Il governo ottomano ha dichiarato il Jihad, ossia la natura di guerra ideologica del confronto in atto. La qual cosa rende più plausibili gesti di sopraffazione che, altrimenti, rischierebbero di risultare ingiustificati o comunque eccessivi. La tematizzazione dell’armeno come «nemico interno» è peraltro già sufficientemente diffusa nella società ottomana, risalendo all’età di Abdul Hamid II e alla sua politica controriformista. Ogni azione precaricatoria viene così ricondotta al nesso tra minaccia da affrontare e “sicurezza” da conseguire. La minaccia costituita da una comunità “straniera”, ospite indesiderata nei territori dell’Impero, collusa con il nemico; la sicurezza da offrire alla maggioranza, anche a costo di alzare la soglia della violenza di Stato. Peraltro, l’esercito ottamano in marcia verso il fronte caucasico procede, nel mentre, alla distruzione di diversi villaggi armeni e all’uccisione di una parte della sua popolazione. Con la fine del primo anno di guerra procede inoltre l’opera di requisizione delle armi a disposizione dei civili, il disarmo dei reparti armeni aggregati all’esercito ottomano e il loro utilizzo in lavori civili o l’impiego in attività di bassa forza mentre, entro il marzo del 1915, si estromettono dall’amministrazione statale i funzionari armeni. L’insieme delle iniziative che, di fatto, costituiscono le premesse per quanto sarebbe avvenuto in misura sistematica di lì a non molto, sono accompagnate da una montante propaganda che, attraverso i mezzi di comunicazione, letteralmente bombarda le coscienze, allertandole sulla presunta pericolosità della minoranza cristiana. In realtà, quest’ultimo sforzo trova non pochi ostacoli qualora lo si misuri sul metro degli effettivi risultati. Il primo di essi è costituito dalla contrapposizione tra l’ideologia nazionalista del Comitato, derivata dall’esperienza europea, di contro alla lunga tradizione teocratica dell’Impero. Se il rimando all’Islam è un fattore a forte incidenza, ciò che conta, alla resa dei fatti, è il riuscire ad incentivare i conflitti preesistenti sui territori a composizione mista, soprattutto laddove armeni e curdi coesistono e convivono da molto tempo. Già il sultanato aveva tentato di detribalizzare le minoranze musulmane, riuscendoci però solo in parte. Il controllo dei distretti orientali, inoltre, risulta per Costantinopoli molto più oneroso. Da un lato, a guerra iniziata, si rivela tanto più strategico poiché il Comitato sa che è li che si giocheranno le sorti del paese. Dall’altro, la tendenza all’autonomia non è una questione che rinvii ai soli armeni, all’epoca distribuiti per due milioni dentro i confini dell’Impero ottomano e per un altro milione e mezzo nell’Impero russo. Poiché anche i curdi e le altre minoranze hanno incontrato il pensiero nazionalista. Fomentare la contrapposizione etnica, infine, è agevole laddove preesistano tensioni e competizione. Ma la storia intercomunitaria tra i due grandi gruppi, che vivono affiancati da molto tempo, non è riconducibile solo alla matrice unitaria del conflitto. In alcuni casi la convivenza secolare ha invece la meglio su tutto. Anche qui, ciò che fa la differenza sono gli esiti di lungo delle campagne d’odio messe in piedi dal sultano Abdul Hamid II negli ultimi vent’anni del XIX secolo. Le quali hanno comunque prodotto una serie di cliché e stereotipi, molto diffusi tra una parte della popolazione musulmana. I motori ideologici fondamentali sono l’accusa di mancanza di lealtà, l’incapacità di integrarsi nel tessuto nazionale, l’alterità come indice di pericolosa minaccia ma anche l’invidia sociale, laddove gli armeni sono dipinti come ingiustificati detentori di ricchezze che apparterrebbero – invece – al resto della società. Si tratta di inquinare le relazioni preesistenti, insinuando e predicando l’odio insieme alla calunnia e alla diffamazione sistemtiche. A tali funzioni sono delegati quanti si recano, a rimorchio delle truppe, nell’autunno del 1914, in qualità di propagandisti, nelle province orientali. Il rimando è quello al Jihad, inteso come un obbligo nel medesimo tempo autodifensivo (alimentando la sindrome da accerchiamento) e come opportunità per colpire, una volta per sempre, i nemici di ieri, di oggi e, in prospettiva, del domani. Si tratta di annientare gli «infedeli» stranieri, quelli che minacciano le frontiere dell’Impero per costituire il regno dell’empietà, e quelli interni. Senza pietà poiché, si va dicendo, in gioco è l’esistenza stessa della popolazione ottomana. Il registro utilizzato è volutamente ambivalente. Se l’appello alla lotta senza quartiere sembra rinviare all’identità religiosa, quindi all’obbligo di attenersi ad un canone morale e spirituale, esso tuttavia batte ripetutamente il tasto della mancanza di fedeltà verso il centro politico ottomano. L’appartenenza musulmana e la cittadinanza panturca, quest’ultima idealizzata come un obiettivo a venire, vengono quindi fatte coincidere. Un fenomeno, quest’ultimo, che già si era manifestato, in crescendo, negli anni precedenti ma che adesso assume forma compiuta, diventando strategia ottimale di comunicazione delle élite ottomane. Si tratta di travasare l’elemento della comunanza religiosa musulmana sul piano della solidarietà etnica. Impresa difficile poiché le comunità musulmane era tra di loro etnicamente diverse, laddove i turchi, a ben vedere, nell’Impero costituivano essi stessi in tale senso una minoranza. Ma l’alterità cristiana degli armeni è letta definitivamente come la prova incontrovertibile di una diversità insanabile. Il legame tra gli armeni e le potenze europee, sancito a suo tempo dal regime della capitolazioni, alimenta il vigore propagandistico, gonfiando il fantasma del tradimento, lo spettro dell’estraneità, la paura dell’espropriazione: gli armeni assumono tali fattezze, inemendabili se non con il ferro e il fuoco. Teocrazia e nazionalismo celebrano così il loro matrimonio di interessi. Sulle future ceneri di almeno un milione e duecentomila incolpevoli vittime. In seguito alla definizione degli indirizzi di fondo degli indirizzi sterminazionisti viene quindi messa in atto, a tutto campo, una politica propagandistica sfiancante: gli armeni sono descritti tout court come una minaccia per la sicurezza nazionale, per il fatto stesso di esistere. Il loro rapporto con le nazioni europee, la presenza di volontari armeni nelle file dell’esercito russo, i presunti complotti volti a favorire le nazioni dell’Intesa, sono il corollario di questo costrutto ideologico. Le condizioni di guerra si rivelano a loro volta di incredibile favore nel rendere accettabile la sequela di accuse che si succedono con crescente intensità. Per parte del Comitato di unione e progresso l’occasione si rivela ghiotta poiché ritiene, in tale modo, ossia adottando la politica del capro espiatorio, di potere procedere ad un suo consolidamento politico che, per più aspetti, fino ad allora aveva sentito ancora mancargli. L’abisso, in buona sostanza, è dietro l’angolo.
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Claudio Vercelli
(7 giugno 2015)