Qui Roma – L’eredità dell’orologiaio poeta
“Ironico cantastorie della comunità ebraica romana, l’acuto osservatore di un mondo che descriveva con affetto, come di chi sa come vanno le cose del mondo”. Queste le parole con cui la storica della letteratura e docente universitaria Eléna Mortara raccontava sul nostro notiziario quotidano l’apporto straordinario che Duccio Levi Mortera (1938-2014), l’orologiaio poeta, ha dato alla conoscenza del giudaico-romanesco e alla sua diffusione anche fuori dal mondo ebraico. Anche perché, ricordava la studiosa, “amava declamare i suoi versi agli amici e anche ad un pubblico di sconosciuti, in qualunque occasione, pubblica o privata, e recitava con passione teatrale, divertendosi nel comunicare agli altri quel flusso di notazioni e pensieri che in lui sgorgavano naturalmente in versi”.
Una passione che ha messo per iscritto, seguendo l’esempio del padre Eugenio (di cui è stata pubblicata postuma, nel 2003, una “Raccolta di sonetti romaneschi”). E a cui ha saputo abbinare un’altra grande sfida, quella del canto, prendendo parte attiva alle iniziative del coro comunitario Ha Kol, istituzione in cui “apportava pure il contributo della sua bonomia pacificatrice e della sua grande simpatia”. Racconta la moglie Gigliola Modigliani, accogliendoci nella sua casa romana: “Stare per tanti anni a fianco di una persona così eclettica è stata un’avventura bellissima. Aveva sempre le parole giuste per ogni occasione, era una fonte inesauribile di stimoli. L’ho amato, e allo stesso tempo mi sono fatta anche tante risate”.
In salotto, davanti a una tazza di tè, le memorie prendono forma attraverso le centinaia di fogli, appunti e poesie che sono conservate con cura e da cui emerge nitidamente il modo in cui il marito guardava al mondo che lo circondava. Nella sua quotidianità più stretta, ma anche relativamente ai grandi temi (e alle grandi contraddizioni) che attraversavano la società italiana.
“Leggeva il giornale, ci dedicava molto tempo. E dalle notizie che più lo colpivano, specie quelle di argomento politico, traeva spunto per dedicarsi immediatamente a un nuovo componimento. Declamava col sorriso, portava sempre la gioia con sé. E anche per questo era così benvoluto e ha saputo mantenere amicizie che erano nate in gioventù e che hanno resistito al passare degli anni. Sempre con la stessa intensità – commenta Gigliola – sempre con la stessa voglia di leggerezza”.
Come ha scritto lo stesso Duccio: “So’ gioviale con tutti e mi piace che gli altri lo siano con me”. A riconoscergli questa dote, innata e poi maturata sul campo, anche la giuria dell’ambito “Premio simpatia”, che nel 2011 aveva voluto riservare un alloro anche a lui, “l’orologiaio poeta”. Gigliola sfoglia la pagina che il Messaggero aveva scritto in quella occasione sul marito, tracciandone con belle e significative parole la personalità.
“Io nun me l’aspettavo in fede mia, er core che me batte nun se sente? Premiato da siffatta compagnia, è riconoscimento più che eloquente”, il ringraziamento di Duccio. Che poi aggiungeva, manifestando con fierezza le proprie radici: “Io so’ romano docche, quello vero poi se vede dar nome, so’ giudio”.
“Amava Roma – spiega Gigliola – era visceralmente attaccato a questa città. E allo stesso modo amava essere parte della Comunità. E quando c’era qualcosa che non gli piaceva non mancava di sottolinearlo. Ricordo ad esempio la ben nota disputa sulle ciambellette, delle quali era golosissimo. Ne scaturì un sonetto davvero piccante e gustoso”.
La voglia di scherzare, ricorda, non l’avrebbe abbandonato neanche durante la malattia. Mesi difficili, travagliati, sofferti. Eppure, nonostante tutto, a prendere il sopravvento era ancora una volta il sorriso. “Fino alla fine – conferma la professoressa Mortara – Duccio ha mantenuto il suo gusto per la battuta e il suo spirito arguto, come avevamo potuto constatare anche noi amici andandolo a trovare, e come testimoniato dal figlio che ha assistito con la madre ai suoi ultimi istanti di vita”.
A pochi mesi dalla scomparsa, il vuoto appare oggi incolmabile. E se la tristezza è ancora profonda, c’è al tempo stesso la volontà di far sì che l’immenso patrimonio culturale-identitario lasciato in eredità non vada disperso. Secondo la professoressa Mortara, infatti, lo spirito di osservazione e le scritture di Duccio Levi Mortera, se raccolte come meritano, potranno entrare nella storia di Roma e in quella della letteratura ebraico-romano e italiana, “raccontando con arguzia alcuni aspetti del nostro mondo” e “fornendo ispirazione vitale anche alle generazioni future”.
Adam Smulevich, Italia Ebraica giugno 2015
(7 giugno 2015)