Pregare per l’Italia
Ho letto e riletto il testo di rav Riccardo Di Segni a proposito della “preghiera per l’Italia”. Il dibattito, scaturito dalla proposta di Haim Korsia, Gran Rabbino di Francia, verte sull’opportunità o meno di reintrodurre nella tefillà lo spezzone in favore del governante e dello Stato italiano. La tradizione è medievale e poggia su alcune citazioni classiche che sottolineano l’importanza della stabilità civile per la pace degli ebrei, e invocano implicitamente un trattamento di favore da parte del sovrano per i suoi sudditi non cattolici.
Scrive tra l’altro Di Segni: “Non c’è bisogno per gli ebrei italiani di fare preghiere ‘politiche’ per dimostrare quello che sono e sentono, cittadini di identità complessa e non esclusiva, in cui la parte italiana è comunque essenziale, profonda e radicale come è l’amore per questa terra; basterebbe magari evitare esagerazioni in tutti i sensi, dall’esposizione di bandiere (d’Israele) all’esterno di edifici ebraici ma non israeliani o delle foto di soldati (italiani o israeliani) sui cancelli della sinagoga (mai visti sui cancelli delle chiese), fermi restando il nostro legame con Israele e la solidarietà con i soldati italiani, tanto più in questi giorni in cui sono a guardia delle sinagoghe”.
Queste parole di grande buon senso – nella mia modesta valutazione – pongono una questione fondamentale: l’ostentazione della propria identità, quale che sia la forma che assume, tradisce un’insicurezza. In questo senso possiamo forse immaginare che la nostra incertezza di ebrei italiani sia dovuta alla dimensione ridotta della nostra comunità, alla memoria della Shoah e alla paura dell’antisemitismo, allo scarso senso di appartenenza allo Stato tipico degli italiani (qui c’è un enorme differenza con la Francia), alla consapevolezza di una marginalità culturale rispetto alle grandi comunità straniere.
Non è semplice proporre ricette. Personalmente vedo due possibili strade, assai impervie, da percorrere: la prima passa per un grande sforzo nello studio della tradizione religiosa, della lingua ebraica e anche della realtà israeliana. Non basta ripetere stancamente dei sani propositi, occorre investire soldi e dirottare risorse da altri settori (pensiamo a quanto costerà la traduzione del Talmud) e serve un impegno supplementare, più creativo, da parte di intellettuali e rabbini.
La seconda, a mio avviso complementare, si nutre della voce che come cittadini italiani di religione ebraica possiamo levare a proposito di quanto accade oggigiorno. La nostra storia – frutto di secoli di persecuzioni e resurrezioni – ci può rendere più sensibili e credibili nel denunciare le ingiustizie che osserviamo quotidianamente. Chi vuole un esempio di quanto sto affermando può leggere con attenzione la lezione morale di Piero Terracina, pronunciata il 28 maggio scorso in Senato in occasione dell’iniziativa “Il peccato dell’indifferenza”. Un testo semplicemente straordinario.
Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas twitter: @tobiazevi
(9 giugno 2015)