Setirot – Bethlehem
Solamente un israeliano (nato a Herzliya) o un israelo-palestinese (musulmano di Jaffa) – meglio ancora un israeliano e un israelo-palestinese insieme – può/possono raccontare con tanto sentimento, profondità, dolore, intimità, grandezza e sgomento quarantotto anni di occupazione. Così, l’altra sera allo Spazio Oberdan di Milano, alla fine del film “Bethlehem”, la gran parte della platea è rimasta per qualche minuto immobile e muta mentre scorrevano i titoli di coda; era fisicamente percepibile il bisogno collettivo e individuale di mettere a fuoco e lasciar decantare le proprie emozioni. Il film premiato a Venezia nel 2013, gratificato da molti riconoscimenti in patria, diretto dall’israeliano Yuval Adler (sceneggiatura co-firmata insieme al giornalista arabo Ali Waked) è stato proiettato durante l’ottava edizione della Rassegna Nuovo Cinema Israeliano meritoriamente organizzata dal Centro di documentazione ebraica contemporanea (CDEC) e sponsorizzata da AcomeA sgr.
La grandezza, la forza direi, di questo lavoro è a mio avviso che non ci sono ‘buoni’ e ‘cattivi’. C’è la guerra, c’è la quasi cinquantennale occupazione che vissuta sul terreno e non nei salotti delle proprie case occidentali appare come un dolore indicibile, un cancro che aggredisce tutti, ma proprio tutti. L’ambiguità della disperazione, il dramma di rapporti umani dove ognuno cerca di sopravvivere in una realtà impossibile. Ci sono gli aspetti più nascosti e vergognosi dell’una e dell’altra ‘malattia’. In “Bethlehem” non ho visto un messaggio politico, nessuna morale da consegnare agli spettatori. Soltanto realtà, ovvero angoscia, sofferenza.
L’angoscia di quel legame fortissimo, contrario ai rispettivi interessi di ‘famiglia’, che s’instaura tra Razi, l’agente dello Shabak, e Sanfur, il suo diciassettenne informatore palestinese, nome in codice ‘Esaù’. La sofferenza di Razi: “Passo più tempo con lui che con i miei figli” dice per proteggere la sua fonte, il ragazzino che i vertici dei servizi israeliani sono pronti a sacrificare pur di raggiungere e uccidere il fratello maggiore, Ibrahim, capo delle Brigate Al-Aqsa che non disdegna i finanziamenti dai rivali di Hamas.
Stefano Jesurum, giornalista
(11 giugno 2015)