Il genocidio degli armeni: un quadro d’insieme/8
Un elemento di forte frizione nella parabola armena, durante gli ultimi anni dell’Impero ottomano, è senz’altro la posizione assunta nei confronti del conflitto russo-turco. A prescindere dalla martellante propaganda di Costantinopoli, tesa a dimostrare il ‘tradimento’ armeno a prescindere da qualsivoglia riscontro di merito, il tessuto comunitario locale era diviso al suo interno da spinte contrapposte. Le componenti indipendentiste valutavano come un’opportunità il fatto che le crescenti tensioni tra i due imperi avessero generato una concorrenza politica che si era poi tradotta in conflitto, benché quest’ultimo fosse infine incapsulato di un più generale confronto armato, a livello intercontinentale, per l’appunto la Prima guerra mondiale. Diverso era invece l’atteggiamento dei gruppi più tradizionalisti e conservatori, orientati in senso lealista verso i turchi. Il patriarcato di Costantinopoli si poneva su quest’ultimo piano. Sta di fatto che l’insediamento armeno in Anatolia costituiva da tempo oggetto di particolari attenzioni da parte di San Pietroburgo, considerandolo come la porta di accesso all’area mediterranea. È certo che la comunità armena di Russia, in particolare quella presente nell’area transcaucasica, avesse trovato autorevoli appoggi e rilevanti sostegni nello stesso inner circle zarista. Il quale ne sfruttava le aspettative per meglio favorire la propria penetrazione in territorio ottomano, utilizzando le aspirazioni nazionaliste non meno che gli stessi strumenti di propaganda religiosa della parte avversa. Ovviamente ribaltati, in questo caso, contro gli ottomani. Se gli armeni di Russia, incorporati nelle armate zariste, nel 1914 vanno tuttavia perlopiù a combattere sui fronti europei, e non in quello caucasico, rimane il fatto che per Costantinopoli la sovrapposizione e la compresenza di membri della stessa comunità nazionale da una parte e dall’altra dei confini meridionali tra i due grandi antagonisti imperiali rimane un problema di grandi proporzioni. Lo è anche per gli stessi armeni, i quali, al di là delle intenzioni nazionaliste e dei progetti indipendentisti di alcuni dei loro esponenti, debbono rispondere a richieste contrapposte di fedeltà. Non solo nell’Impero ottomano ma anche in quello russo, infatti, l’accusa di slealtà può scattare quasi immediatamente se non si accondiscende alle richieste che arrivano dalle autorità centrali.
Con la guerra europea e mondiale il processo si accentua, sottoponendo le minoranze interne agli imperi a tensioni crescenti. Anche per tale ragione, quindi, le autorità religiose, politiche e civili armene ottomane assumono una posizione ufficiale di fedeltà nei confronti del proprio governo. Tra l’altro, personalità politiche armene, in particolare del partito Dashnak, già nel corso del primo decennio del Novecento erano riuscite a costruire, coltivare e mantenere buoni rapporti con i Giovani turchi, soprattutto con una parte dei loro rappresentanti più in vista. Quando nel 1914, poco prima della grande catastrofe bellica, si tiene il congresso del partito, ad Erzurum, in Anatolia, Ismail Enver Pasha partecipa ai lavori, cercando di convincere i suoi dirigenti armeni ad armare e ad addestrare bande di sabotatori, da inviare nei territori transcaucasici, per colpire i russi. Per l’alto esponente del Comitato di unione e progresso si tratta di misurare il livello di compromissione che le forze organizzate del comunitarismo armeno sono concretamente disposte ad offrire a Costantinopoli. Al rifiuto, argomentato dalla necessità di non offendere l’autonomia e gli interessi degli armeni di quel territori, mettendoli di fatto contro il loro stesso paese, Enver Pasha risponderà a breve alimentando del suo la velenosa campagna propagandistica “sul ‘tradimento armeno”. Si dirà, infatti, che gli armeni ottomani avrebbero sostenuto i russi nella loro avanzata in territorio turco in cambio dell’appoggio al progetto di costituzione di un proprio stato. La qual cosa, se è infondata qualora la si consideri dal punto di vista delle élite comunitarie non è detto, invece, che non raccogliesse i favori delle componenti indipendentiste, a partire da quelle residenti nelle aree metropolitane. Non di meno, se queste sono le posizioni degli armeni ottomani, quelli russi, ancorché poi utilizzati come forza combattente perlopiù sul fronte europeo, si dispongono per costituire in Georgia, quindi a ridosso della Sublime Porta, un corpo di volontari che avrebbe dovuto infiltrarsi oltre il confine turco. Si tratta di una iniziativa dai tratti più politici che squisitamente militari e che raccoglie immediatamente l’ostilità delle autorità ecclesiastiche armene, quanto meno di quelle di Costantinopoli, le quali ne colgono il velleitarismo coniugato alla pericolosità. Il velleitarismo sta nella falsa convinzione che così facendo i russi si dispongano per dare concreto spazio ad un futuro Stato indipendente, cosa che non era invece nelle corde di San Pietroburgo. La pericolosità è tanto evidente (alimentando l’ostilità ottomana) quanto poco o nulla considerata dai promotori della mobilitazione. L’esercito russo, peraltro, decide di non inquadrare queste milizie al suo interno, vigendo per esse il criterio dell’auto-reclutamento. Si costituisce un apposito comitato, con l’impegno di adoperarsi in tale senso, mentre per l’armamento e il vettovagliamento i reparti non possono approvvigionarsi alla logistica zarista. Tale scelta, al di là dei suoi specifici esiti, storicamente si inserisce tuttavia nel più ampio quadro della diffusione del fenomeno dei ‘volontari armeni’, ossia i diversi reparti che combatterono a fianco delle forze regolari russe, francesi e britanniche per tutto il corso della Prima guerra mondiale. Fanno parte delle unità volontarie anche la Legione franco-armena così come la Milizia armena, insieme di gruppi irregolari, diretta emanazione dei partiti e delle organizzazioni politiche come la Federazione rivoluzionaria armena, che prestano i loro quadri e i militanti per attività belliche, in un’epoca in cui la militarizzazione della politica era fatto tanto ovvio quanto comune. La grande parte di queste unità, spesso dallo status militare incerto, avrebbe quindi preso parte alle diverse operazioni e ad alcuni combattimenti che interessano il Medio Oriente. Sul versante transcaucasico vengono pertanto composte quattro unità, che rimangono a disposizione dell’esercito imperiale zarista per missioni nelle zone di confine. Se l’apporto operativo risulterà quindi, alle resa dei conti, di scarso rilievo, l’effetto propagandistico, purtroppo, sarà di ben diversa levatura. Poiché da subito la propaganda ottomana ha gioco facile nel ripetere i motivi, di per sé già consolidati, dell’infedeltà coniugandoli a quelli della ‘criminalità’ dei corpi autonomi armeni, dipinti alla stregua di bande di predoni. L’unico elemento degno di nota è il ruolo che le unità autonome svolgono nell’offensiva russa dell’inverno tra il 1914 e il 1915, parte della più ampia ‘campagna del Caucaso’, quando le truppe imperiali ottengono una serie di vittorie, arrivando quasi a sbaragliare la Terza armata ottomana e la cavalleria curda. In quelle circostanze, infatti, si inscrive l’episodio della difesa della cittadina di Van (geograficamente collocata tra l’attuale Turchia orientale e l’Iran). A fronte del tentativo turco di annientarne la popolazione armena, causando comunque cinquantottomila morti, nel mentre proseguiva la penetrazione russa in quei territori, la sollevazione dei residenti, trentamila elementi e quindicimila profughi ivi sfollati, diventa dirimente per le sorti dei civili sopravvissuti così come anche per il destino militare delle truppe ottomane in quel teatro di guerra. Truppe, infatti, che non riescono a domarla, subendo poi in maggio, una nuova offensiva russa, la quale porta alla conquista della città il 21 del mese, grazie anche all’attivo concorso dei volontari armeni. Ed è proprio in questo quadro, che di giorno in giorno si fa sempre più drammatico per l’Impero ottomano, che il suo parlamento vota nei giorni successivi la legge Tehcir (“spostamento”), conosciuta anche come Sevr ve Iskân Kanunu (letteralmente, la “legge sul popolamento e la ricollocazione”). Con essa si autorizza l’espulsione, o comunque la redistribuzione territoriale coatta, della popolazione armena dai o entro i confini imperiali. Si tratta di una delle «misure eccezionali» assunte nel corso della Prima guerra mondiale contro le comunità cristiane. È intesa come una norma temporanea, destinata a spirare l’8 febbraio 1916. Non prima, ovviamente, dell’avere prodotto i suoi effetti. L’esecuzione delle azioni che tali disposizioni legislative, integrate successivamente da altri ordini, includono è affidata alla Teşkilât-ı Mahsusa (la sinistra “Organizzazione speciale”), voluta da Enver Pasha e già operante dal novembre del 1913. Si trattava di un insieme di unità operative, che arrivarono a contare sulla partecipazione di trentamila elementi, tra i quali anche alcuni criminali amnistiati all’uopo, incaricate di reprimere il separatismo arabo e di combattere le intromissioni occidentali, progenitrici dei futuri servizi segreti turchi. L’Organizzazione speciale, indipendente dall’esercito (benché da esso logisticamente assistita) e organizzata come una sorta di miscela tra una polizia politica e una milizia paramilitare, assume quindi in carico l’insieme della attività anti-armene. Tra gli ordini, oltre al ricorso alla spietatezza e all’acquisizione forzata dei beni delle vittime, vi è quello di procedere all’esecuzione delle misure di trasferimento coatto attraverso lunghe marce forzate. Gli archivi ottomani testimoniano di come le deportazioni in massa della popolazione armena fossero già iniziate il 2 marzo 1915 (così in un telegramma cifrato del ministero degli Interni ala provincia di Adana). Un mese prima, i centoventimila soldati di origine armena incorporati nella Terza armata turca erano stati nel mentre definitivamente disarmati, venendo destinati, come altri loro commilitoni, a lavori di forza. La grande maggioranza di essi verrà poi assassinata indiscriminatamente entro il mese di maggio. L’Organizzazione speciale, nel 1915 comandata da Bahaeddine Chakir, medico e nazionalista, uomo di fiducia del Comitato di unione e progresso, è pertanto all’opera. Nei suoi ranghi, in quei mesi, conta dodicimila effettivi, tra i quali diversi curdi, emigrati musulmani spesso fuggiti dai Balcani e dal Caucaso, ex reclusi per reati gravissimi (come l’omicidio) e psicopatici dichiarati, reclutati tra prigioni e manicomi. Il tratto condiviso è l’avere fatto proprio il verbo anti-armeno: alle comunità cristiane (e tra di esse anche a quelle assire, caldee, siriane e ai greci del Ponto) viene attribuita la colpa delle difficoltà in cui versa l’Impero come, più prosaicamente, i motivi per cui gli stessi appartenenti alla milizia si sentono in credito verso il mondo. Gli armeni sono il classico capro espiatorio, pronto al sacrifico. Il quartiere generale dell’Organizzazione è ubicato a Costantinopoli ma essa può contare su trentasei “macelli”, siti operativi, sparsi per tutto l’Impero, dove le peggiori attività possono avere corso, al riparo da occhi troppo indiscreti. Il governo ottomano ricorre anche al contributo della Direzione generale della collocazione delle tribù e dei migranti, il Göçmen Genel Müdürlüğü, un’amministrazione che si impegna nell’attività di pianificazione, altrimenti caotica, delle deportazioni dei civili. Queste due organizzazioni sono chiamate ad implementare il programma genocidiario, con la compromissione consapevole della dirigenza del Comitato di unione e progresso. La prima fase, che va da aprile a ottobre del 1915, consiste nel rastrellare sistematicamente le province orientali di Bitlis, Van, Sivas, Erzurum, Diyarbakir, Mamuret ul-Aziz, storicamente caratterizzate da un robusto insediamento armeno. Proprio gli imprevisti che si verificano nel mentre, a partire dall’auto-difesa armena di Van, accentuano e radicalizzano la violenza turca. La quale già da tempo si conformava al principio che per rendere inoffensiva la massa dei “traditori” armeni occorresse tagliare prima di tutto la testa dei capipopolo, ossia delle élite intellettuali e politiche. Nella notte del 24 aprile 1915 il ministro degli Interni Mehmed Tal’at ordina, sulla scorta di una precedente circolare firmata da Tal’at Pasha, l’arresto di circa duecentocinquanta esponenti delle dirigenza armena. La misura, che tuttavia richiede cautela per essere realizzata poiché si temono le reazioni dell’opinione pubblica internazionale, si estende poi ad altri centri urbani, come Smirne. Gli imprigionati verranno in seguito giustiziati in piccoli gruppi. Nel maggio dello stesso anno ancora il ministro dell’Interno chiede al governo ottomano, e al suo primo ministro Said Halim Pasha, di legalizzare definitivamente l’insieme delle misure, già in atto, per la deportazione e la “ricollocazione” della popolazione armena, costituendo quest’ultima «una minaccia per la sicurezza nazionale». Il 13 settembre 1915 il parlamento approva quindi una legge temporanea per l’«espropriazione e la confisca» di tutte le proprietà e dei beni dei deportandi, facendo seguire a ciò la loro redistribuzione tra la popolazione turca e tra i rifugiati di origine musulmana. Il significato di questa misura è ancora più chiaro di quella precedente: gli originari, legittimi proprietari non sarebbero tornati in possesso dei loro averi, essendo destinati a sparire. La cupa e tragica traiettoria compiuta dagli assassini di Stato peraltro non passa inosservata. Già il 24 maggio 1915, i governi della Triplice intesa, informati dai propri diplomatici, così come dai missionari ancora presenti in loco, sull’ampiezza dei massacri, emettono una dichiarazione comune con la quale affermano che ritengono «personalmente responsabili coloro che hanno ordinato tali crimini contro l’umanità e la civiltà». La risposta dei Giovani turchi è l’intensificazione delle operazioni di deportazione. Se nel mese di aprile sono più di trentacinquemila gli armeni espulsi, in maggio se ne contano 131.408, in giugno 225.499, in luglio 321.150 e in agosto 276.800. Alla fine di questa prima fase, in ottobre, calcolando anche i convogli che arrivano dalla Cilicia e dalla Cappadocia, il totale dei deportati, inviati attraverso le «marce della morte» nei deserti della Siria e della Mesopotamia, ammonta a un milione e duecentomila elementi. Con un criterio che si fa cerimonia criminale abituale, al momento di mettere in movimento i convogli e le colonne delle vittime, il più delle volte appiedate (mentre in altri casi si ricorre ai vagoni per il bestiame, ammassando un numero inverosimile di persone, spesso prive di acqua e di cibo, nella stesso abitacolo, facendo poi compiere al trasporto un percorso lunghissimo, esasperante, lentissimo, apparentemente quasi senza meta), si procede alla separazione degli uomini dalle donne, uccidendo i primi. Ciò che resta delle famiglie viene quindi obbligata alla traversata di zone desertiche senza nessuna protezione. Molto spesso, se non quasi sempre, chi si arresta per la stanchezza viene assassinato, davanti alla parte restante delle vittime. L’approdo conclusivo dovrebbe essere la ventina di campi istituiti nei distretti di Aleppo, a Der-el-Zor (nella Siria orientale), Rakka e a Mossul. Ad arrivarci, in condizioni pietose, saranno solo quattrocentomila persone, alle quali si aggiungono altri trecentomila prigionieri. I campi, spesso intesi come luoghi di transito, quindi come prigioni temporanee, in attesa di ulteriori trasferimenti nel vuoto. si trovavano nella quasi totalità dei casi in regioni desertiche, spesso nei dintorni di piccoli villaggi. Il loro sistema di funzionamento prevedeva un particolare metodo di reclutamento dei responsabili, già adottato anche per l’Organizzazione speciale: la ricerca delle figure da inserire in funzioni gestionali tra i piccoli criminali, in altri casi selezionati tra i notabili locali, arabi o circassi. Nei campi, il direttore si circondava di diversi collaboratori, a volte provenienti da Aleppo, dove aveva sede la vice-direzione dei campi, così come reclutati sul posto. Tra gli armeni, il direttore nominava inoltre un capo sorvegliante, e dei guardiani, che si occupavano soprattutto dei turni di notte, quando era più facile subire attacchi da parte di tribù locali. Ogni giorno alcuni prigionieri, nominati becchini, dovevano passare tra le tende per raccogliere i cadaveri e seppellirli nelle fosse comuni, improvvisate intorno ai luoghi di prigionia. In cambio dell’assolvimento di queste funzioni venivano distribuiti un po’ di viveri e sorteggiata la possibilità di rimanere nel campo più a lungo, in modo da posticipare l’ennesima deportazione. Il sistema era tuttavia ingegnato in modo tale da creare il maggior numero di tensioni possibili tra i deportati, alimentando una sorta di competizione per la sopravvivenza. I guardiani, reclutati tra i più poveri, animati da una profonda invidia sociale, convinti – poiché indottrinati in tal senso – che la causa delle loro disgrazie fosse da imputare agli stessi prigionieri, si rifacevano su di loro, ritenuti responsabili di colpe inemendabili per il fatto stesso di essere ancora in grado, in qualche modo, di potere comprare del cibo o una tenda con la quale ripararsi dal sole. Ogni costo era peraltro completamente a carico dei deportati. Il campo infatti viveva del commercio che i deportati erano costretti ad alimentare, a vantaggio degli abitanti dei villaggi locali, che imponevano i propri prezzi approfittando della disperazione dei prigionieri. Dopo di che, chi non poteva pagare e comprare, veniva lasciato a sé, vedendo accelerarsi i tempi della sua morte. La quale, in quelle condizioni, sopravveniva velocemente.
Claudio Vercelli
(14 giugno 2015)