Periscopio – Guerra e morale
I film di guerra mi sono sempre piaciuti, e ho letto con interesse, perciò, sul numero di questo notiziario dello scorso giovedì, 11 giugno, una nota di Daniela Gross dedicata al recente film “Fury”, di David Ayer, ambientato nella Germania della primavera del 1945, quando l’esercito americano avanzava faticosamente, incontrando l’accanita resistenza di un nemico ormai sconfitto, ma che si ostinava a non arrendersi.
Francamente, il film – al di là delle notevoli rappresentazioni degli scontri a fuoco, di forte impatto visivo – non mi è piaciuto, in quanto retorico, forzato e monocorde, con i pur bravi attori indotti a interpretare delle parti semplicistiche e stereotipate (il triste, il rozzo, il semplice, il mistico e l’ingenuo). Ma ciò che soprattutto mi ha disturbato è stato quello che mi è parso emergere come una sorta di messaggio morale del film, ovverosia l’idea che la guerra, in quanto brutta e cattiva, imbruttisca e incattivisca inesorabilmente tutti coloro che vi prendano parte, abbassandoli a livello di pure macchine di morte, il cui unico scopo è la vittoria – anzi, l’uccisione dei nemici – e alle quali è interdetto ogni scrupolo di coscienza, visto come segno di titubanza e debolezza, come nociva persistenza dell’antica vita da civili, che dovrebbe essere invece completamente dimenticata.
Questa morale mi pare sintetizzata da un episodio del film piuttosto sgradevole, che appare una chiara citazione da una scena di quel capolavoro assoluto che è invece stato “Salvate il soldato Ryan”, di Steven Spielberg (pellicola da cui Aver trae palesemente ispirazione, ma senza minimamente raggiungerne la forza epica e narrativa). Mi riferisco alla scena in cui la giovane recluta, ancora ignara delle spietate leggi della guerra, viene sottoposta dal suo esperto e disilluso comandante (un Brad Pitt più ingrugnito e depresso che mai) a un crudo rito di iniziazione, consistente nell’uccidere a sangue freddo un prigioniero tedesco, sotto lo sguardo tra l’annoiato e il divertito dell’intera compagnia. Anche in “Save Private Ryan” c’è un episodio simile, ma dall’esito opposto, in quanto il comandante (interpretato da un magnifico Tom Hanks) si rifiuta di assecondare un’analoga proposta fatta dai suoi uomini (anche se non per sadismo, ma per esigenze militari), e lascia libero il prigioniero.
Sono certo che entrambi gli episodi di fantasia rientrino nella realtà della guerra, che esalta il peggio e il meglio dell’uomo, mettendo spesso di fronte a scelte estreme. Ma sono anche certo che, così come descritto in “Fury” – un’esecuzione sommaria eseguita per puro scopo didattico ed educativo, davanti a decine di testimoni, senza che nessuno alzi un sopracciglio o dica mezza parola di obiezione o commento -, l’episodio è assolutamente inverosimile, del tutto incompatibile con i codici comportamentali dell’esercito statunitense, che avrebbero portato lo zelante maestro – magari a guerra conclusa – dritto davanti a una corte marziale. Esso, però, nonostante la sua inverosimiglianza, è stato inserito per avvalorare la morale di fondo del film, consistente, come ho ricordato, nel dire che in guerra non c’è spazio per l’etica e per i sentimenti, che l’unica alternativa è la vittoria o la sconfitta, e l’unica distinzione tra gli uomini è quella tra forti e deboli.
Un messaggio sbagliato: non è vero che la morale, in guerra, scompare, anche se è più facile che venga dimenticata o calpestata. Ne sanno qualcosa, per esempio, i soldati di Israele, la cui forza ha una ben diversa natura da quella del brutale comandante di Fury, il cui comportamento – tanto più in quanto tenuto dal capo dei ‘buoni’ – non può suscitare altro che totale repulsione, anche in una sala cinematografica.
Francesco Lucrezi, storico
(17 giugno 2015)