Il genocidio degli armeni: un quadro d’insieme/9

vercelliI campi in cui affluivano i deportati non costituivano un sistema concentrazionario estremamente rigido e coeso. Ovvero, benché le gratuite brutalità fossero moneta quotidiana, la metodicità dell’assassinio era affidata all’arbitrio e alla discrezionalità delle autorità locali. Si trattava, infatti, di un circuito di aree di prigionia creato in pochi mesi, nelle difficili condizioni dettate dalla guerra in corso e dopo aver già sterminato buona parte della popolazione armena con altri metodi. La totalità delle strutture, inoltre, erano improvvisate, composte con gli scarsi materiali a disposizione. Da un lato non si voleva offrire ai prigionieri qualcosa che garantisse loro un’accoglienza e una permanenza dignitose. Dall’altro lato, non si avevano comunque i beni necessari per rendere stabili siti che erano considerati, quanto meno nelle intenzioni, luoghi di transito verso ulteriori mete, in Siria e Mesopotamia. Nei fatti, tuttavia, i deportati vi rimanevano imprigionati per lunghi periodi, in genere almeno fino all’arrivo di nuovi contingenti di civili. Cosa che, generando un immediato sovraffollamento, causava ulteriori trasferimenti di massa verso le regioni desertiche meridionali, nel tentativo di diminuire la popolazione imprigionatavi. Solo in alcuni luoghi, quindi, si arrivò all’istituzione di campi di concentramento permanenti. La costituzione di campi di transito, con l’inizio del 1915, non ebbe poi ulteriore seguito, soprattutto quando, nell’estate dell’anno successivo, fu invece portato a termine il progetto di eliminazione di tutti gli armeni della regione a nord di Aleppo. La parziale eccezione a questo sistema organizzativo riguardò perlopiù i campi della linea Hama-Homs-Damasco-Gerusalemme-Amman-Maan, considerati ufficialmente «zone di reinsediamento» degli armeni deportati. Qualcosa, per intenderci, che si sarebbe ripetuto con i ghetti nazisti in Polonia tra il 1940 e il 1944. A questi ultimi, infatti, non fu riservata l’eliminazione sistematica e neanche la morte per inedia bensì una qualche forma di sopravvivenza. Ma fatta salva questa benevola eccezione, con il 1916, dinanzi ancora alla presenza di circa settecentomila prigionieri suddivisi in una ventina di campi, le autorità ottomane si risolsero per trasformare il maggiore numero di essi in luoghi di sterminio. Quando il 22 febbraio 1916 le truppe russe conquistarono la città di Erzurum, una delle antiche capitali dell’Armenia storica, i turchi decidono quindi di dare una risposta definitiva alla questione relativa al da farsi nei confronti dei deportati sopravvissuti. È allora che i membri dell’Organizzazione speciale, nei siti di prigionia distribuiti tra il Tigri e l’Eufrate, vengono autorizzati ad uccidere indiscriminatamente quanti vi sono nacora trattenuti. Tra luglio e il dicembre di quell’anno, quindi, sotto la direzione del prefetto Salih Zeki, considerato l’uomo giusto per le soluzioni radicali, si procede all’assassinio di duecentomila persone. Il 24 ottobre 1916 a Der-el-Zor duemila orfani vengono gettati, legati due a due, nell’Eufrate, affogandovi, sotto lo sguardo di Ismail Hakki Bey, l’«ispettore generale delle deportazioni». Quando le truppe britanniche, avanzando in Medio Oriente, nel 1917, raggiungeranno, in Siria e nella Palestina ottomana alcuni di quei luoghi, troveranno ancora circa centomila sopravvissuti, ridotti in condizioni inumane. Si tratta degli scampati alla grande mattanza della Cilicia, che andranno a comporre i nuclei delle nuove comunità armene della Siria e del Libano. A vicende ultimate, quando il genocidio si è oramai del tutto compiuto, dei due milioni di armeni ottomani del 1914 ne saranno rimasti in vita non più di un quarto. Una parte di essi si insedierà nel Caucaso, ricongiungendosi con le comunità armene russe, prima di entrare a fare parte dell’Unione Sovietica. Altri emigreranno negli Stati Uniti e in Europa. Un terzo gruppo resterà a Istanbul, ora protetta dalle clausole relative alle minoranze religiose sottoscritte dalle autorità turche con le potenze occidentali a Losanna, nel 1923. Nel complesso la guerra tra Turchia e Russia, iniziata dalla prima il 29 ottobre 1914, con l’agosto del 1916 conosce una cessazione non ratificata delle ostilità, dinanzi allo sfiancamento dei due protagonisti, per poi riprendere l’anno successivo con una violenta coda di combattimenti nel 1918. Ripercorrendo le vicende belliche, dopo l’avvio offensivo per parte ottomana nella regione compresa tra i laghi di Van e di Urmia, la controffensiva russa, che si trasforma in una invasione dei distretti dell’Anatolia meridionale, determina la crisi militare di Costantinopoli nel 1915. Il conflitto coinvolge le popolazioni locali, ed in particolare gli armeni, i curdi e i siriaci, che diventano protagonisti (vittime e carnefici) del lunghissimo corredo di violenze che si accompagnano alla scontro tra le unità regolari degli eserciti contrapposti. Senz’altro la sollevazione di Van, nell’aprile del 1915, è da considerarsi come l’evento spartiacque, che determina l’attivazione sistematica della politica genocidiaria la quale, tuttavia, in ipotesi era già contemplata dai gruppi dirigenti ottomani. Il suo fondamento sta, in tutta probabilità, nella necessità di istituire un baricentro ideologico di coesione interno al campo turco, dinanzi all’implosione e allo scollamento dei territori orientali che la guerra rischia di alimentare ulteriormente. La lealtà a Costantinopoli viene quindi richiamata sulla scorta dell’esercizio legalizzato della violenza sistematica contro un gruppo target, gli armeni per l’appunto, scelti non tanto per la propensione alla secessione territoriale di alcuni esponenti delle loro élite bensì per l’essere una comunità di insider che, tuttavia, mantiene tratti di marcata autonomia. Attraverso le persecuzioni e l’annientamento di una nazionalità si cerca così di ricompattare una società plurale ma non pluralista qual era quella ottomana, nella speranza di potere gestire il declino senza pagare prezzi troppo alti. Nelle dinamiche criminali del potere ottomano, dopo l’assassinio degli armeni anatolici, nell’estate del 1915 segue quello delle comunità della Cilicia. Coloro che riescono a sopravvivere a queste ondate di mattanza si rifugiano in Transcaucasia. Quando nel 1916 l’offensiva russa riprende il suo cammino, con l’occupazione di Erzurum, Trebisonda, Erzincan, la guerra colpisce e decima le popolazioni musulmane. Con la primavera del 1917, consolidata la presenza nella regione di Van, le autorità russe permetteranno il ritorno di centocinquantamila profughi nei loro territori d’origine. Discorso a sé è la lunga questione del ruolo delle diplomazie in queste dinamiche, così come della loro funzione di denuncia in tempo reale, dinanzi all’opinione pubblica internazionale, mentre i fatti avvenivano. Il politico e diplomatico inglese James Bryce, che già si era occupato delle violenze tedesche in Belgio tra il 1914 e il 1915, l’anno successivo viene incaricato di raccogliere testimonianze, documenti e quanto possa servire per la resocontazione dei massacri ottomani ai danni delle popolazioni armene. Ne deriva un «Blue Book», dal titolo «Il trattamento degli armeni nell’Impero ottomano», redatto dallo storico e studioso Arnold Toynbee. Alla genuina volontà di denunciare la tragedia in corso si accompagna l’obiettivo di contrastare la propaganda tedesca, che a sua volta denuncia i pogrom delle truppe zariste nei territori polacchi e baltici. Di fatto, quello che succede è che a fronte della incisività dei resoconti si sovrappone e si contrappone il convincimento, condiviso da molti, che le denunce siano non solo il prodotto di un’enfatizzazione ad arte delle altrui violenze ma si contemperino (e quindi si mitighino) dinanzi al cinico riscontro del fatto che non solo tutti i belligeranti, in una guerra, compiono atti disdicevoli contro i civili ma che dietro alla potenza dell’accusa, quand’anche suffragata da prove, vi sia il mero calcolo di interessi a proprio beneficio. In altre parole, l’incrocio tra accuse reciproche in materia di brutalità di fatto neutralizza, o riduce di molto, la veracità e e la veridicità delle loro formulazioni. La diplomazia americana, a sua volta, si rivela coma la più attiva nel denunciare la situazione degli armeni, così come la diplomazia tedesca, al corrente dei massacri e delle modalità di deportazione, ma alleata dell’Impero ottomano, esercita una costante ma inefficace pressione diplomatica sulle autorità locali e di governo, sottolineando soprattutto le conseguenze negative in divenire sul piano diplomatico internazionale. Nel settembre 1915, ad esempio, l’ambasciatore americano a Costantinopoli Henry Morgenthau chiese l’aiuto del proprio governo per raccogliere fondi a favore dei civili armeni. In poche settimane, quindi, si formò un coordinamento di emergenza, che operò con il nome di «American Committee for Armenian and Syrian Relief». Oltre all’attenzione dedicata al fatto che le vittime fossero cristiane si aggiungeva il fatto che la condizione dei profughi civili risultasse da subito inconciliabile con lo stesso regime di guerra. In altre parole, si denunciava l’intenzionalità politica che stava dietro al dramma in atto. Il lavoro del Comitato continuò quindi con la raccolta fondi per le emergenze. L’aiuto concreto, ossia l’intervento materiale, si attivò attraverso la vasta rete di missionari americani presenti in Turchia che, per il loro status particolare, potevano godere di alcune tutele che altrimenti non erano riconosciute ad altri soggetti. Questa struttura, radicata sul territorio, fu sfruttata ampiamente dal Comitato di emergenza, che, nonostante l’iniziale neutralità degli Stati Uniti, durata fino al 1917, e la possibilità quindi di intervenire inizialmente con il ricorso all’azione diplomatica, non poté tuttavia incidere direttamente sul campo fino alla conclusione della Prima guerra mondiale. Tutto il denaro raccolto fu quindi utilizzato esclusivamente per gli aiuti immediati ai profughi, nel tentativo di mitigare gli aspetti maggiormente brutali delle loro sofferenze. Solo in seguito poté essere avviata anche un’attività di lungo periodo nei campi profughi, con l’organizzazione di una struttura stabile e articolata che trovava negli Stati Uniti il suo centro operativo. A partire dal marzo 1919 gli operatori del Comitato arrivarono in Medio Oriente e cominciarono a gestire direttamente campi profughi in Cilicia, Anatolia, Siria, Transcaucasia, Palestina e Libano. In questo quadro, dove il disfacimento imperiale (non solo di quello ottomano ma anche del suo antagonista russo e delle stesse potenze europee centrali, come l’Impero austro-ungarico e di quello prussiano) si inserisce la convulsa nascita della Repubblica armena, nel 1918. Si tratta di un fenomeno repentino, che si ingenera da una costellazione di fattori legati alla guerra medesima. Dopo la rivoluzione russa del 1917, infatti, la Transcaucasia diventa di fatto una regione autonoma. Alla presa del potere da parte dei bolscevichi sussiste già un Consiglio nazionale armeno, dotato di una certa autonomia militare. Nel dicembre del 1917 le autorità transcaucasiche sottoscrivono un armistizio con quelle ottomane. Le forze armene, nel mentre, controllano una porzione di territorio che comprende Van ed Erzincan. Al costituirsi di una Assemblea costituente («Seim») per la determinazione del regime politico che avrebbe definito il futuro della Transcaucasia i delegati armeni, che sono il trenta per cento dell’insieme dei rappresentanti, accanto ad azeri e georgiani, non riescono tuttavia ad accordarsi con gli altri gruppi. Una nuova offensiva ottomana, contro Van e Kars, nella primavera del 1918, costringe gli armeni a fuggire. Il procedere dell’avanzata turca, che arriva a minacciare Yerevan, porta al tracollo della Transcaucasia come regione unitaria nella quale fare convivere gruppi nazionali diversi. La nascita dell’Armenia indipendente si inserisce dentro questo quadro di eventi complesso, a tratti confuso, dove saltano tutte le vecchie linee di divisione e i confini. La progressione degli ottomani, che li porta nell’Azerbaigian, si esaurisce solo con il loro ritorno alle frontiere del 1914, dovuto non alla sconfitta sui campi di battaglia ma agli armistizi che sanciscono la conclusione della Prima guerra mondiale sul teatro di combattimento orientale. Nell’aprile del 1919 i britannici, oramai magna pars nell’intera regione, dinanzi alla contesa territoriale ingeneratasi tra armeni e georgiani, procedono ad una divisione che tratteggia i confini dell’attuale Repubblica armena. Un’entità fragile e, per certi aspetti, artificiale nella sua composizione così come è stata artificiosa la sua istituzione. Il territorio, infatti, non è quello tradizionalmente e storicamente armeno; la volontà che si manifesta non è quella collegiale bensì l’espressione del partito Dashnak; la situazione economica e sociale è prossima allo sfacelo, contribuendo ad aumentare la tensione e l’instabilità, alimentata anche dai dissidi con la popolazione azera della Repubblica, il cui mancato riconoscimento delle istanze politiche da parte del governo in carica provoca una ondata di repressione e violenza. Più in generale, a fare la vera differenza è la condizione dei molti, in un paese la cui popolazione è costituita nella maggioranza dei casi da profughi, che sperano di riuscire a ritornare nelle loro terre di origine. La fame favorisce le malattie; il blocco degli scambi, nella situazione di perenne guerriglia della zona, impedisce peraltro l’approvvigionamento, mentre dominano la speculazione e il saccheggio. Gli aiuti internazionali tardano ad arrivare, anche a causa del blocco georgiano, che requisisce per sé buona parte delle merci in transito. Soltanto nell’aprile 1919 questi, soprattutto inviati dagli americani, giungeranno finalmente a Yerevan. Sul piano internazionale, la repubblica non trova riconoscimento e i conflitti etnici continuano con le vicine Georgia e Azerbaigian, tra le popolazioni locali e le minoranze armene laddove, dopo violenze continue, i conflitti si concludono con l’emigrazione delle seconde nella Repubblica armena. La quale, a sua volta, applica criteri fortemente penalizzanti per le componenti musulmane. Da questo momento comincerà lo scontro con le forze nazionaliste di Mustafa Kemal Atatürk, il padre della Repubblica turca nata nel 1923, con la dissoluzione del sultanato. Infine, l’Armenia deve affrontare la nuova politica territoriale sovietica, nella quale la «questione armena» diventa oggetto di scambio con i kemalisti. Dopo la costituzione di una Repubblica socialista sovietica d’Armenia nel dicembre del 1920, il trattato russo-turco di Kars, sottoscritto il 13 ottobre 1921 anche dalla stessa Repubblica armena, regola le questioni di frontiere, consegnando alla Turchia la regione dell’Ararat e Ani (il territorio di Igdir) e Kars, mentre il Karabash verrà presto attribuito, in quanto regione a statuto autonomo, alla Repubblica socialista sovietica dell’Azerbaigian. Se con la fine della Prima guerra mondiale era parso possibile che agli armeni venissero riconosciuti i territori che comprendono l’Anatolia orientale, l’Armenia caucasica e la Cilicia; fosse concesso il rimpatrio dei profughi e il loro risarcimento; venisse istruito il processo e fosse emessa la condanna contro i responsabili del genocidio, con la negoziazione diplomatica e gli assestamenti politici dei primi anni Venti, nonché la creazione di aree d’influenza nelle terre oramai ex ottomane, l’insieme delle aspettative armene si rivelano del tutto illusorie. Anche l’ipotesi di un mandato statunitense nella regione tramonta ben presto. Sarà il trattato di Losanna, firmato il 24 luglio 1923, a chiudere ufficialmente la «questione armena», eliminandola per decenni dalle agende della diplomazia internazionale. Contava in ciò, tra i diversi elementi di quadro, la determinazione dei nazionalisti turchi, raccoltisi intorno a Kemal Atatürk, nel mantenere l’unità territoriale della Turchia insieme allo sforzo di avversare in tutti i modi possibili i tentativi di autonomia delle regioni dell’Anatolia orientale. A Losanna, infatti, la questione dell’Armenia storica viene liquidata, ratificando l’esistenza della Repubblica federativa sovietica della Transcaucasia (insieme alla Georgia e all’Azerbaigian), nata nel 1922, mentre nel 1936 nascerà la Repubblica socialista sovietica dell’Armenia.

(9/fine)

Claudio Vercelli

(21 giugno 2015)