Se Atene piange
La oramai interminabile crisi greca è in realtà l’epitome e il suggello di una crisi europea senza apparenti vie d’uscita. Quanto meno se le cose rimangono così come sono, ovvero consegnate ad un pantano che si fa palude. Parrebbe quasi che chi più tenta di muoversi maggiormente sia condannato a sprofondare nelle sabbie mobili.
Detto per inciso: comunque vada il referendum che è in corso di svolgimento in queste ore, per Atene il futuro sembra essere drammaticamente segnato da un orizzonte fosco. L’indebitamento strutturale è divenuta una condizione che sancisce l’impraticabilità di vie che un tempo, invece, sarebbero state percorse come la risposta tanto necessaria quanto spontanea ai quesiti del tempo presente.
Con una chiosa, ossia che la spada di Damocle del debito sovrano non è solo una situazione finanziaria che segnala la patologia economica di un paese ma, nel mentre, è divenuta una condizione ideologica con la quale si tengono in pugno le esistenze di milioni di persone, imponendo ad esse radicali mutamenti negli stili di vita che a loro volta si traducono in perdita di diritti, in assenza di opportunità, in marginalità crescente, in sfaldamento delle prospettive di esistenza e così via.
Nessuna economia, che si basa invece su processi fiduciari e, quindi, su aspettative di evoluzione verso il preferibile (e non su attese di declino) può ripartire se le premesse rimangono queste. La nozione stessa di investimento per lo sviluppo si sfalda in tali frangenti. La percezione diffusa è che quindi si abbia a che fare con impalpabili e invisibili ladri del nostro futuro. Poiché non ci sono prospettive dinanzi al drammatico irretimento e al dogmatico immobilismo che sembra contrassegnare l’insieme degli organismi internazionali, a partire, nel caso nostro, dall’Unione Europea per arrivare al Fondo monetario internazionale passando per la Banca centrale europea. L’opzione politica di fondo è ridotta ad un insieme di valori contabili. Se esistono complessi e problematici debiti pubblici c’è tuttavia da confrontarsi anche un crescente deficit sociale, che già da tempo sta producendo scollamento tra le diverse parti che compongono le nostre società.
Di quest’ultimo, drastico aspetto nessuno pare curarsene, salvo abbandonarsi, in alcuni casi, ai pietismi pelosi dell’informazione pauperista (le immagini di pensionati in coda ad un bancomat per ritirare pochi euro oppure le squallide baruffe da talk show, dove si ‘gioca’ alla guerra tra i poveri) oppure lanciare sommi peani contro il vuoto, con il corredo qualunquistico dei luoghi comuni sulla ‘colpa dei politici’. Tralasciamo quindi i beceri moralismi di sorta, così come le nenie, le litanie e le geremiadi pro o contro qualcosa, ovvero sulla preferibilità di un qualche astratto assetto generale rispetto ad altri. Tra ipotesi di lasche riforme e impossibili rivoluzioni sta semmai passando la via dell’inazione, dinanzi ad un realtà che tende a sfarinarsi, sfuggendo al controllo di chi cerca invece di ricondurla a denominatori condivisi, per poterla quindi gestire.
Al momento, infatti, non esistono facili ricette, applicate le quali tutto potrebbe tornare di certo ‘al suo posto’. Non esiste neanche più un ‘posto’, inteso come punto di partenza e di arrivo, al quale rifarsi per misurare la bontà di eventuali indicazioni di condotta. Anche per questo le fragili opzioni, tentennati, timidamente espresse da certuni, in quanto non sostenute da nessun solido assenso collettivo, rischiano di sbriciolarsi come sabbia.
Già ci fischiano nelle orecchie parole ossessivamente ripetute, inflazionate e come tali – del pari alla moneta di scarso o nullo valore o ad un qualche prodotto adulterato – prive di una qualsiasi credibilità. ‘Ripresa’, ‘rilancio’, ‘sviluppo’ e quant’altro sarebbero espressioni così strategiche da dovere essere pronunciate con la massima cautela, per non impoverirne il valore. Che, invece, è andato perdendosi.
Prendiamo in considerazione, semmai, una questione di fondo, ovvero il declino dell’azione politica in tutti i suoi aspetti, sostituita dai tecnicismi e dai tatticismi di soggetti che rivendicano una rappresentanza collettiva priva di qualsivoglia investitura democratica.
Uno degli aspetti della crisi, forse irreversibile, nei processi di integrazione europea sta infatti nell’assenza di un ruolo peculiare, ovvero pienamente decisionale, della politica rispetto ai processi economici o, per meglio dire, a quelli di natura finanziaria.
Non si tratta, a stretto giro, di pavidità. La questione è più complicata. Già in tempi non sospetti vi era chi denunciava il rischio che un’economia delle cose (e degli uomini) fosse soppiantata da un’economia delle cifre (e di sulfurei valori speculativi). Si tratta di un problema enorme poiché la creazione di ciò che chiamiamo ‘valore’ contabilizzato oggi si gioca perlopiù intorno proprio all’enfatizzazione dei processi di superfetazione speculativa. I quali, da fenomeno eminentemente collegato al mercato dell’approvvigionamento finanziario delle imprese, si sono trasformati in un soggetto autonomo, internazionalizzato e massimamente integrato, capace ora di dettare l’agenda delle priorità alla comunità internazionale.
Dinanzi a ciò si stanno manifestando, nel nostro Continente, due processi correlati. Il primo di essi è il generalizzato declino economico e sociale, che colpisce in misura e proporzioni diverse i singoli paesi ma che comporta comunque un declassamento del ceto medio, con un vero e proprio indietreggiamento collettivo, aggredendo il mercato del lavoro, il rapporto tra prestazione e reddito, il legame tra sistemi di integrazione sociale (il Welfare State) e risorse disponibili per renderli fruibili ma anche il rapporto solidale tra generazioni.
Il secondo fenomeno è la defezione delle élite rispetto ai territori. Già l’ordinamento economico (e in parte giuridico e amministrativo) che è venuto affermandosi a partire dagli anni Settanta aveva sancito la sopranazionalità di una parte dei processi decisionali, promettendo come vantaggiosa contropartita la maggiore integrazione dei paesi e delle società in un processo di redistribuzione che si sarebbe dovuto rivelare come virtuoso per i più.
A partire da ciò, ed arrivando ad oggi, quanto si registra è, invece, l’atto consapevole di progressivo abbandono che le classi dirigenti globalizzate, non solo quelle politiche, hanno consumato rispetto agli spazi di origine. Non ne sono più interessate, traendo il loro utile da una ricchezza che è mobile, riproducendosi grazie alla sua infinita trasmissibilità spaziale. Un pianeta globale è un luogo dove le élite si muovono senza problemi di sorta, mentre le classi e i ceti subalterni sono legati, come in una sorta di dannazione, al destino dei luoghi in cui sono nati e cresciuti. Le migrazioni, a tratti convulse se non ‘selvagge’, insieme alle diffuse profuganze, ci indicano il disperato bisogno, oggi come anche nei tempi che furono, di sfuggire da un destino che, altrimenti, rischia di essere segnato una volta per sempre.
Dinanzi a quest’ordine dilemmatico di problemi, l’inanità europea è tangibile da tanti punti di vista. Ad esempio, chiedendo alle singole società nazionali di adeguarsi a criteri di condotta collettivi senza per questo offrire risorse e opportunità affinché ciò possa concretamente avvenire. Oppure facendolo attraverso una serie di filtri che, disattivano i potenziali benefici collettivi che da certe decisioni, avrebbero altrimenti dovuto derivare. A questa profonda discrasia di fondo, a tale drastica dissonanza si somma poi lo sconcertante atteggiamento in materia di immigrazione – questione capitale, che ci accompagnerà, piaccia o meno, nei lustri a venire -, consegnata semmai ad un pressappochismo collettivo che rivela soprattutto un paio di cose, ossia che non esiste nessuna politica estera europea (e fin qui ci eravamo già arrivati) così come il fatto che il segno predominante sia quello del giocare allo scaricabarile. Che da ciò possa derivare una politica dell’Unione sufficientemente determinata rispetto ai mutamenti strutturali che stanno sconvolgendo il Mediterraneo meridionale ed orientale, partendo dai paesi rivieraschi per giungere a quelli interni alle macro-regioni del Medio Oriente e dell’Africa subsahariana, pare fatto improbabile se non improbo. La questione stessa del nodo irrisolto della Grecia, dove un problema debitorio, associato alla insostenibilità di un sistema economico collassato, sia divenuto uno psicodramma collettivo, senza apparente via d’uscita che non sia l’alternarsi tra una visione punitiva del trattamento da riservarvi o una improbabile, se non insostenibile, fuga dall’Unione e dall’Eurozona, la dice lunga sull’inettitudine di chi dice di dovere e volere scegliere quando invece volge lo sguardo esclusivamente verso quell’altro (e altri) che è la propria immagine riflessa.
Claudio Vercelli
(5 luglio 2015)