Giulio Segre (1936-2015)
Appena poche settimane fa realizzava il sogno lungamente rincorso: il conferimento del titolo di Giusto tra le Nazioni alla memoria dell’uomo che lo aveva tratto in salvo dai persecutori, il giovane sacerdote di montagna don Cirillo Perron, attivo in quei mesi terribili a Courmayeur. Scompare all’età di 78 anni Giulio Segre, celebre collezionista, memoria storica delle vicende ebraiche di Saluzzo e fratello di Beppe, ex presidente della Comunità di Torino.
Commovente la sua testimonianza di salvezza, raccontata nello scritto autobiografico “Don Cirillo e il nipotino” (ed. Fusta) che aveva presentato in occasione di una recente edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino. Annotava Segre, riferendosi al suo salvatore: “Avrebbe potuto essere fascista, odiare gli ebrei, denunciarli dopo un attimo ai carabinieri. Nel tepore della sacrestia, mio padre raccontò la nostra storia, le esitazioni a fuggire, le ingenuità di non avere avuto un progetto migliore, il trovarsi senza aiuti e senza conoscenze, con la buona probabilità di essere arrestati unitamente al loro bambino piccolo. Il sacerdote li lasciò parlare e sfogare, senza interromperli, forse era un buon psicologo, o forse anche per lui il problema che si poneva era troppo grande. Si accarezzò qualche volta i capelli che cominciavano prematuramente a diradarsi e prese le mani di mio padre fra le sue”. Don Cirillo avrebbe poi aggiunto: “Non so ancora come, ma cercherò di aiutarvi. È meglio però che stiate ritirati in albergo. Qui ora non è stagione di turismo e la vostra presenza potrebbe insospettire qualcuno. Tornate verso sera, entrate dalla porta laterale e io vi aspetterò”. Quel giorno, sottolineava Segre, “fu l’inizio per me di una vicenda straordinaria”. Don Cirillo e Giulio, insieme per un anno e mezzo. Il prete e il nipotino “che doveva respirare l’aria buona di montagna” (questa la versione ufficiale diffusa, con la complicità di parte del paese).
I funerali di Giulio Segre si svolgeranno questo pomeriggio alle 16 presso il cimitero ebraico di Saluzzo. A darne notizia la Comunità di Torino attraverso una nota di partecipazione al dolore dei familiari diramata dall’Ufficio Rabbinico.
Al fratello Beppe e a tutti i suoi cari il cordoglio e la vicinanza della redazione del portale dell’ebraismo italiano www.moked.it e di Pagine Ebraiche.
(Nell’immagine Giulio Segre con il nipotino Tommaso)
a.s twitter @asmulevichmoked
Don Cirillo e il nipotino
Da parecchi anni quando, ogni 16 ottobre, ascolto le rievocazioni della razzia nazista del ghetto di Roma, rabbrividisco e penso alla situazione degli ebrei saluzzesi in quei giorni. Il 16 ottobre 1943 mille ebrei romani erano arrestati e portati a morire, mentre a Saluzzo la vita della nostra piccola Comunità continuava, certo con problemi, ma in un’assurda normalità. Della razzia di Roma e delle altre stragi, a Saluzzo naturalmente nessuno seppe mai nulla e quegli avvenimenti furono tenuti segreti. Senza rendersi conto del pericolo incombente e che lo stesso destino sarebbe potuto succedere anche a loro, gli ebrei saluzzesi vivevano quelle settimane in un clima di grande ingenuità e nell’assurda convinzione che tutti i loro problemi non sarebbero andati oltre all’avere i negozi chiusi, a non poter frequentare le scuole, a essere tutti schedati in Questura.
Mio papà e mio zio erano stati precettati per un lavoro coatto dall’Organizzazione Todt, per lavori di manovalanza e l’allestimento di un vicino campo d’aviazione militare, insieme ad altri ebrei e ad altri 200 uomini, che si erano invece presentati volontariamente per la garanzia di un anche minimo salario. Alla sera, incontrandosi in strada o all’uscita dalla funzione in Sinagoga, mio papà e gli altri ebrei saluzzesi discutevano se sarebbe stato più saggio rifugiarsi in Francia o in Svizzera, o addirittura in Argentina, ma con scarsa convinzione e d’altronde, senza documenti per l’espatrio e senza conoscenze, tutto si riduceva a chiacchere sterili e cavillose.
E così la vita andò avanti, con le preoccupazioni più immediate dei giorni di guerra, lo scarso cibo razionato con le tessere annonarie, la paura dei bombardamenti, la difficoltà di un lavoro e la scarsezza di quattrini. Alcuni, in verità, e fra questi mio papà e mio zio, grazie alla conoscenza di un impiegato del Comune, erano riusciti a procurarsi documenti falsi, da tenere pronti per il futuro, ma sembrava una preoccupazione esagerata. E così, fra molti dubbi, inutili chiacchere, e irrealizzabili progetti di fuga, si arrivò fino alla fine del mese di novembre. Il 30 novembre 1943 il ministro dell’Interno della Repubblica Sociale Italiana emanò alle Questure l’ordine di arresto di tutti gli ebrei, già da tempo schedati e tenuti sotto controllo. Il commissario di Pubblica Sicurezza di Saluzzo, che era amico di mio padre e di mio zio, li avvisò immediatamente di eclissarsi, dicendo che aveva i loro ordini di arresto pronti sulla scrivania. Non era più il momento di tergiversare. E così i miei genitori, con me bambino di sette anni, uscirono di casa all’alba del 2 dicembre, appena finito il coprifuoco in cui non si poteva circolare, con due valigie preparate frettolosamente, con pochi quattrini, senza un progetto preciso e una meta sicura.
Alle nove di quello stesso mattino, un brigadiere della Pubblica Sicurezza, accompagnato da un vigile urbano, avrebbe suonato alla nostra porta, verbalizzando poi che il giudeo Vittorio Segre risultava irreperibile. Per molti altri ebrei saluzzesi, fra cui i miei nonni e una zia, invece il destino non fu così magnanimo. In treno ci dirigemmo verso la Valle d’Aosta, che sembrava il posto più vicino per passare in Svizzera, ma non era stato preso in considerazione l’inverno, con le abbondanti nevicate e i valichi di frontiera chiusi e impraticabili. Così arrivati a Cormaiore, al capolinea della ferrovia, ci ritrovammo alle sette di sera, sotto la neve, e nel buio più completo (dall’inizio della guerra era in vigore “l’oscuramento”), in un paesino di cui non sapevamo nulla e in cui non conoscevamo nessuno. Dopo avere dormito in una piccola pensione, presentando per la prima volta i documenti falsi, i miei genitori si trovarono al mattino seguente del tutto impreparati a una tale emergenza, e senza sapere proprio come muoversi. Sulla piazza, a poche decine di metri dal loro alberghetto, sorgeva (e sorge ancora, malgrado una bruttissima ristrutturazione) la Chiesa del paese. Sembrò la soluzione migliore, o forse anche l’unica, quella di entrare e chiedere aiuto a qualcuno, anche se sconosciuto. Nell’interno c’era gente, e il giovane parroco, un sacerdote magrolino e con un naso importante, a quei forestieri che volevano parlargli, consigliò di ripassare più tardi, finite le funzioni. E così mio padre, preoccupato e spaventato, non ebbe esitazioni a dare tutta la sua fiducia di primo acchito a Don Cirillo Perron, un giovane sacerdote di montagna, mai visto prima.
Avrebbe potuto essere fascista, odiare gli ebrei, denunciarli dopo un attimo ai carabinieri.
Nel tepore della sacrestia, mio padre raccontò la nostra storia, le esitazioni a fuggire, le ingenuità di non avere avuto un progetto migliore, il trovarsi senza aiuti e senza conoscenze, con la buona probabilità di essere arrestati unitamente al loro bambino piccolo. Il sacerdote li lasciò parlare e sfogare, senza interromperli, forse era un buon psicologo, o forse anche per lui il problema che si poneva era troppo grande. Si accarezzò qualche volta i capelli che cominciavano prematuramente a diradarsi e prese le mani di mio padre fra le sue. “Non so ancora come, ma cercherò di aiutarvi. È meglio però che stiate ritirati in albergo. Qui ora non è stagione di turismo e la vostra presenza potrebbe insospettire qualcuno. Tornate verso sera, entrate dalla porta laterale e io vi aspetterò”.
Facemmo così il 3 dicembre del ‘43, la conoscenza con Don Cirillo Perron, il giovane parroco di Courmayeur, e questo fu l’inizio per me di una vicenda straordinaria. Nascondere tutta una famiglia, in un momento in cui in paese c’era poca gente in giro, pochissimi forestieri e assolutamente nessun turista, sarebbe stato difficile. Così a mia mamma, che era cattolica e con documenti ineccepibili, fu consigliato di tornare a Saluzzo presso le sorelle, mentre a mio papà, che nella falsa carta d’identità si presentava come un improbabile siciliano, fu suggerito di eclissarsi in una grande città, magari Milano, dove sarebbe passato inosservato e nessuno gli avrebbe fatto caso.
“In quanto al bambino, se voi vi fidate, lo terrò con me. All’inizio rimarrà nascosto, senza farsi vedere, finché non avremo badato a procurargli documenti falsi, e magari anche una falsa carta annonaria, e lo faremo diventare un mio nipotino, che è sfollato dalla città per sfuggire ai bombardamenti”. E così cominciò la mia vita clandestina, portando il cognome della mamma e un bel N.N. nella paternità, e cercando di diventare nel giro di pochi giorni un perfetto bambino cattolico, capace perfino di fare il chierichetto. Per una settimana rimasi nascosto e chiuso in un solaio sopra la canonica.
Don Cirillo spinse un armadio davanti alla porta, dopo aver provveduto a munire il mio giaciglio di coperte, una piccola provvista di cibo e due libri di Salgari da leggere. Ancora adesso, quando tengo fra le mani quell’edizione ingiallita del “Corsaro Nero”, non posso fare a meno di pensare con che prontezza, senza esitazioni, Don Cirillo ci aiutò e in particolare me, tenendomi nascosto, anche se soccorrere in qualunque modo gli ebrei nemici della Repubblica Sociale era un reato gravissimo. Mentre io rimanevo chiuso in quel bugigattolo, con la poca luce che filtrava da un finestrino, con una folle paura dei topi e una grande nostalgia dei miei genitori, Don Cirillo si prese cura di me, con frequenti visite, facendomi coraggio, provvedendo persino alle necessità più elementari, come quella di nascondere pudicamente in un angolo un bel vaso da notte. Nei giorni seguenti si recò in un paesino vicino, un po’ prima di Aosta, dove il parroco era suo amico e anche con il segretario comunale aveva ottimi rapporti, cementati dalle comune idee politiche di antifascismo. Nel giro di otto giorni i documenti di Giulio Bigo furono pronti, comprensivi di certificato di battesimo, risalente al 1936, anno di tempi non sospetti.
Dopo questo, Don Cirillo mi lasciò uscire, rimosse l’armadio che nascondeva la porta del solaio e mi presentò ufficialmente, annunciando ai conoscenti che la sorella vedova, abitante in Emilia, gli aveva lasciato per un po’ in consegna il bambino.
Nella sua camera in canonica aggiunse una piccola brandina, con un materasso fatto di foglie secche, come si usava allora, ma in ogni caso molto più confortevole del precedente rifugio nell’angusta soffitta. Questo fu il mio rifugio per circa un anno e mezzo. Dopo la guerra venimmo a sapere che, come aveva aiutato me, nello stesso periodo Don Cirillo Perron si era prodigato con altre persone in difficoltà, partigiani, ricercati politici ed anche altri ebrei.
Giulio Segre, Pagine Ebraiche giugno 2013
(8 luglio 2015)