Periscopio – Grossman e gli antisemitismi

lucreziChiedo scusa se, anche nel pezzo odierno, torno ancora sul libro, appena pubblicato in Italia, di Vasilji Grossman, Uno scrittore in guerra, al quale mi sono dedicato già nel mio intervento settimanale di mercoledì scorso.
Non lo faccio per sottolineare nuovamente l’eccezionale valore storico e documentale del volume – davvero inesauribile fonte di informazioni di prima mano riguardo alla cruda realtà dello scenario orientale della Seconda Guerra Mondiale -, ma perché mi pare che la testimonianza diretta di Grossman fornisca degli elementi di grande importanza e obiettività per valutare il tipo di atteggiamento verso gli ebrei da parte degli invasori tedeschi e dei sovietici, e per tentare un paragone tra l’antisemitismo nazista e quello slavo, su cui tante volte ci si è soffermati.
Al di là del mero confronto tra le varie forme di violenza perpetrate contro le popolazioni ebraiche da parte dei vari soggetti – SS, esercito regolare tedesco, popolazioni civili di Ucraina, Bielorussia, Crimea, autorità sovietiche ecc.: un confronto nel quale, ovviamente, i nazisti e i loro diretti collaboratori appaiono “fuori concorso” e non temono rivali , mi pare interessante notare come l’esperienza dello scrittore-testimone contribuisca a mettere in luce una profonda differenza di natura tra l’antigiudaismo germanico e quello di matrice slava: due fenomeni che, pur nelle notevoli somiglianze sul piano delle manifestazioni esteriori, risultano intrinsecamente diversi.
L’antiebraismo nazista, infatti, così come ci appare descritto nelle terribili pagine dello scrittore – che racconta come per i tedeschi le camere a gas rappresentassero anche una forma di spettacolo, capace di dare svago e divertimento, ma anche in grado, per la sua ripetitività, di diventare, col tempo, noioso o ipnotico: “…talvolta le SS organizzavano una sorta di picnic nei pressi dei forni: si sedevano sottovento, bevevano vino, mangiavano e fissavano le fiamme” -, appare un “veleno totale”, in grado di ‘resettare’ integralmente la coscienza di milioni di persone, per le quali l’imperativo categorico della completa eliminazione della “razza ebraica” era diventato un elemento identitario assoluto e assorbente, in grado di eliminare ogni eccezione, differenza, sfumatura. Un veleno dalla infernale pervasività e rapidità di diffusione, in grado di cambiare letteralmente natura, in pochissimo tempo, a un intero popolo: la Germania non era certo aliena storicamente, prima di Hitler, dall’antisemitismo, ma esso non ne aveva mai rappresentato l’elemento di identità centrale, prioritario, definitivo, il “cuore del cuore”, come sarebbe avvenuto col nazismo, che, senza giudeofobia, sarebbe del tutto inconcepibile.
Profondamente diversa, invece, la natura dell’antigiudaismo slavo, che rappresentava un fenomeno secolare, sedimentato soprattutto nei ceti più bassi e incolti, legato all’ignoranza e alla superstiziosità popolare, contro il quale le autorità sovietiche non ritennero opportuno e necessario mettere in atto iniziative di contrasto, e che spesso trovarono anzi conveniente continuare a sfruttare e fomentare. Se, com’è noto, il contributo degli ebrei al successo della rivoluzione bolscevica era stato di fondamentale rilevanza, è altrettanto noto che l’avvento del comunismo non portò alcun miglioramento nelle generali condizioni degli ebrei di Russia, che si trovarono a subire una doppia forma di pregiudizio: da una parte, il persistere del vecchio antisemitismo di matrice feudale e religiosa, e, dall’altra, il mancato riconoscimento della propria identità, in nome della negazione, da parte dei comunisti, di ogni ‘particolarismo’. Così, gli ebrei venivano colpiti in quanto ebrei dai nazisti e dalla plebaglia ucraina e bielorussa, ma non potevano essere difesi dalle autorità sovietiche in quanto ebrei, perché, secondo le direttive di Stalin, non esistevano ebrei, ma solo cittadini sovietici, da una parte, e, dall’altra, invasori nazisti. Perciò i resoconti di Grossman, che testimoniò del destino degli ebrei a Babi Yar e a Treblinka, furono sistematicamente osteggiati e censurati, in quanto avrebbero reso edotti di una realtà scomoda, che non doveva essere conosciuta, che, anzi, non avrebbe dovuto esistere.
Il tragico racconto di Grossman – con quello che narra e con gli impedimenti incontrati dalla stessa narrazione, parola negata e soffocata – ci dà dunque il quadro di un antisemitismo, come sempre, dal volto ambiguo e contraddittorio, fondato su due elementi opposti l’uno all’altro: da una parte, una vera e propria ossessione, al di là di ogni razionalità, riguardo all’identità ebraica, alla cui caccia ed eliminazione devono essere dedicate tutte le umane energie; dall’altra, una negazione, al di là di ogni evidenza, di quella stessa identità, che, semplicemente, non esiste, neanche quando intere comunità vengono sterminate, in quanto comunità di ebrei.
Una lezione fondamentale, da tenere sempre presente, di fronte ai tanti tristi segnali del giorno d’oggi.     

Francesco Lucrezi, storico