Dai casting al palcoscenico
il canto della solitudine

amy “Cantare è sempre stato importante per me, ma non pensavo che sarei mai diventata una cantante. Pensavo di essere fortunata perché c’era qualcosa che avrei sempre potuto fare se avessi voluto, così fortunata”. Parla così del suo dono una Amy Winehouse ancora agli esordi in una delle interviste raccolte nel film documentario sulla sua vita intitolato “Amy”, del regista inglese Asif Kapadia. Ha fatto il suo esordio sfavillante al festival di Cannes e ora è nelle sale cinematografiche, dove ha registrato un successo da record al botteghino così come tra la critica, che un po’ per la storia intima e commovente che descrive, un po’ per il grande lavoro di documentazione dietro le quinte e la prospettiva inedita, anche da un punto di vista identitario, lo ha definito imperdibile. Non sono poi mancate alcune polemiche con la famiglia, e così Amy la cantante morta quattro anni fa di overdose all’età di 27 anni e “Amy” la pellicola che la racconta non smettono di far parlare di sé.
Il documentario è il risultato di tre anni di lavoro, durante i quali Kapadia ha messo insieme cento interviste a parenti, amici e persone che hanno lavorato con la cantante, con una lunga serie di materiali d’archivio, tra cui video personali, apparizioni pubbliche e dichiarazioni. Per raccogliere tutto questo, Kapadia ha dovuto vincere le ritrosie di molti, che non volevano che una vicenda tragica come la morte precoce di Winehouse rimanesse ancora sotto i riflettori. L’aiuto chiave è stato quello di Nick Shymansky, che ha conosciuto la cantante quando aveva sedici anni ed è stato il suo primo manager. Inizialmente anche lui riteneva che fosse ancora troppo presto per gettare nuova luce sulla vicenda, ma si è ricreduto quando ha visto l’accuratezza delle ricerche di Kapadia. Ore e ore di conversazione con lui, che racconta e delinea la complessità della figura di Amy, ma soprattutto una serie di video che la ritraggono giovanissima e quasi timida, hanno così costituito l’inizio del documentario.
Nelle scene che si susseguono, si vede così una Amy quattordicenne che canta una versione swing di ‘tanti auguri’ per la sua amica che compie gli anni, che si nasconde dietro un cuscino per poi lasciare tutti a bocca aperta con la sua voce e il suo sguardo magnetico, e poi i concerti di una cantante affermata e premiata sul palco dei Grammy Awards, e infine gli scatti rubati dai paparazzi, che immortalano occhi ormai pieni di angoscia, e l’ultima caotica esibizione a Belgrado. Ed è proprio questa evoluzione che Kapadia ha voluto sottolineare in particolare: “All’inizio c’è Nick che le parla, con lei che guarda dritta nella telecamera. Parla con noi ovviamente, noi diventiamo Nick. Poi va avanti con le riprese televisive, e noi diventiamo il pubblico. Poi diventa sempre più scuro, e ci sono i video dei paparazzi e c’è un momento preciso a Santa Lucia nel 2011 in cui punta letteralmente alla telecamera e noi siamo colti in flagrante, e distogliamo lo sguardo”. Per lui, racconta, l’aspetto più interessante della pellicola è come gli interlocutori cambiano, da Nick che in macchina le dice “coraggio, dacci un piccolo flash, ci siamo solo noi” ai paparazzi che le urlano “Su, sorridi un po’”.
“Non sono una ragazza che cerca di essere una star o niente di diverso da una musicista”, dice Amy di sé. Ma la fama ha finito per travolgerla, cogliendola nella sua fragilità, senza che nessuno venisse in suo soccorso. “Se si guarda attentamente, ci sono state molte persone che hanno preso varie decisioni ed erano a conoscenza di tante cose, che fosse il bere, la bulimia o le droghe, e nessuno ha fatto nulla per fermarle”, osserva Kapadia. “Questo è ciò di cui realmente parla il film – continua – ed è piuttosto pesante”.
Il risultato è stato al di là di ogni aspettativa. Al primo weekend dalla sua uscita “Amy” ha registrato il maggior numero di incassi tra i documentari inglesi, e si è piazzato al secondo posto nella classifica di tutti i tempi. Critica e pubblico si sono commossi davanti a questa storia struggente, ma in realtà non è piaciuta a tutti. La pubblicazione del film ha infatti scatenato la polemica da parte di Mitch Winehouse, padre della cantante, ex tassista che ora gestisce la carriera postuma della figlia. Winehouse ha definito il biopic, a cui ha inizialmente collaborato, “fuorviante”, in particolare in merito al suo ruolo nel trascurare i disagi della figlia e le sue dipendenze.
In “Rehab”, una della sue canzoni più conosciute, Amy canta: “If my daddy thinks I’m fine” (“se mio papà dice che sto bene”). E in effetti è quello che lui conferma nel documentario: “Mia figlia non aveva bisogno di andare in un rehab”. Tuttavia, Mitch accusa la produzione di aver modificato la sua intervista, tagliando l’ultima parte della frase in cui diceva che una disintossicazione non era necessaria “in quel momento”. Kapadia dal canto suo si difende affermando di non aver apportato alcun cambiamento, ma Winehouse ha già annunciato di voler girare un nuovo documentario “per correggere tutti gli errori e le omissioni”.
Shymansky, che con Amy risulta aver avuto uno dei rapporti più stretti, è invece piuttosto soddisfatto del ritratto che ne emerge, affermando che esso “permetterà alla sua eredità di respirare”. Ma il segreto per comprenderla in realtà lo svela Amy stessa: “Non scriverei nulla se non fosse strettamente personale per me – diceva in un’intervista – altrimenti non sarei in grado di raccontare la storia in modo vero”.

Francesca Matalon twitter @fmatalonmoked

(12 luglio 2015)