Sinai di sangue
Mentre in Italia, e in Europa, ci si accapigliava per il referendum greco sulle condizioni alle quali accettare o meno le richieste della cosiddetta “Troika”, nel Sinai una nuova pagina della guerra fondamentalista veniva scritta. I miliziani jihadisti, da tempo interessati a costruire una solida testa di ponte sulla penisola – ampia 61 mila chilometri quadrati (tre volte le dimensioni d’Israele e duecento volte quelle della Striscia di Gaza, per intenderci), spazio che collega l’Africa all’Asia, nonché storicamente luogo di transiti e traffici, spesso illegali – hanno infatti ingaggiato una serie di scontri armati con l’esercito egiziano, seguendo il copione di una calcolata e preordinata azione di guerra. Il numero dei morti si attesterebbe intorno al centinaio ma, il problema, evidentemente, non è solo questo, rimandando semmai alla strategia di espansione e contaminazione virale che il cosiddetto ‘califfato’ di Al-Baghdadi sta cercando di mettere in atto in quella dozzina di paesi nei quali è oramai stabilmente presente. In Egitto conta, dal 2013, sulla fedeltà degli uomini di Ansar Bayt al Maqdis (i “sostenitori della santa casa”), un’organizzazione emersa agli onori della cronaca nel 2011 ed attivatasi definitivamente due anni dopo, all’atto della deposizione di Mohamed Morsi. Sia ben chiaro che per il radicalismo islamista la posizione dei Fratelli musulmani era di per sé debole, ossia assai stinta rispetto alla pseudo-ortodossia che vorrebbe istituire. Ma rimane il fatto che il colpo di mano con il quale Al-Sisi si era affermato, archiviando l’avventurismo della fratellanza, ha costituito il pretesto per mettere in movimento le cose. L’obiettivo di questa filiale egiziana dello “Stato islamico” è triplice: premere sul regime militare cairota, minacciare l’insediamento politico di Hamas a Gaza e consolidare la propria presenza nel Sinai, di fatto sottraendolo, passo dopo passo, alla giurisdizione egiziana. Più prosaicamente, anche in questo caso la regia dell’aggressione, per tornare ai fatti della settimana trascorsa, avrebbe visto – il condizionale è d’obbligo, mancando riscontri precisi al riguardo – una settantina di uomini del Daesh aggredire simultaneamente una quindicina di piccoli presidi egiziani tra El-Arish e Sheikh Zuweid, fino alla temporanea conquista di quest’ultima, cittadella militare e presidio civile. All’azione terroristica, preceduta da attacchi di kamikaze e accompagnata dagli assalti dei miliziani, dotati di armi anticarro, sarebbe quindi seguita la reazione militare del Cairo, con l’uso anche dell’aviazione, avendo infine ragione degli assalitori. Per rammentare gli eventi più recenti che hanno interessato il Paese basti ricordare che il 29 giugno 2015, in un agguato, era stato assassinato il procuratore generale cairota Hisham Barakat. Il 16 maggio tre magistrati erano stati a loro volta uccisi ad El-Arish mentre il 10 giugno il tentativo di compiere una strage in grande stile a Luxor era stato sventato all’ultimo momento. La rapida e intensa successione di fatti violenti indica come l’Egitto sia uno degli obiettivi dell’organizzazione islamista come anche l’attenzione che questa rivolge ad Israele, premendo ai suoi confini settentrionali come su quelli meridionali. Nei deliri dei proclami il rimando alla ricostituzione del Califfato comprende la costituzione, in attesa di un’impossibile islamizzazione integrale di tutto il pianeta, di una sorta di Stato unico che dal Mediterraneo dovrebbe estendersi fino ai territori siro-iracheni. In realtà, l’aggressione, almeno in questo caso, si è consumata per interposto obiettivo, trattandosi, in tutta probabilità, di tenere perlopiù sotto scacco Hamas, già da tempo accusata di essere non solo collusa con sciiti e “laici”, nonché di “non fare applicare la legge islamica”, ma di costtuire un “regime di tirannia”. Vi sono quindi alcuni questioni che riemergono, dietro a questa accurata strategia della tensione permanente. La prima di esse è la volontà di consolidare enclave dentro le quali operare liberamente, per poi colpire i propri avversari, avendo a riferimento un network mediterraneo che, dalla Mauritania, spazierebbe fino ai Balcani. La seconda è l’alimentare una sorta di guerra civile permanente nei territori musulmani. Così per gli attacchi in Tunisia, un paese che dal punto di vista dell’Isis va ricondotto alla “normalità” di un persistente stato di eccezione, mettendo in difficoltà, se non in crisi, le istituzioni. Il modello di riferimento rimane la trascorsa guerra civile algerina (tra il 1991 e il 2002) la quale aveva contrapposto le autorità Algeri al Fis e al Gia, prodromi delle successive organizzazioni militanti, con un bilancio di almeno centocinquantamila morti in circa un decennio di inenarrabili violenze. Il terzo elemento rimanda alla mobilità e alla extraterritorialità con la quale gli uomini del sedicente ‘califfo’ intendono riproporsi sulla scena mediterranea e mediorientale. Da questo punto di vista, la forza di Al-Baghdadi è stata quella di riuscire a costruire alleanze e coalizioni con gruppi locali, dando ad essi respiro strategico (e risorse materiali) ma chiedendo, in cambio, un’operatività congruente ai suoi obiettivi. Segnatamente, molte di queste piccole e medie organizzazioni sarebbero state distrutte anzitempo dall’intelligence degli stati arabi-musulmani se non si fossero affiliate al network terroristico e militare islamista. Il quarto fattore è la miscela tra visibilità ed invisibilità, laddove alla segretezza con la quale si preparano le operazioni più violente si accompagna, con un calcolo d’immagine che rivela la disinvolta abitudine nel ricorrere al circuito mondiale delle comunicazioni, una efferata e compiaciuta spettacolarizzazione dei loro effetti. Con un risultato di clamorosa amplificazione mediatica, che è uno dei fondamentali cuori pulsanti della violenza islamista 2.0. Significativo, a tale riguardo, che l’Unione Europea paia non avere nulla di rilevante da dire, rimettendosi ai suoi tardivi e coccodrilleschi singulti del pari a quanto (non) va facendo per la sfida ingenerata dai processi migratori in tutta l’area del Mediterraneo.
Claudio Vercelli
(12 luglio 2015)