Le fidanzate della morte
Tutto passa, ogni cosa sembra scorrere, nulla si tiene. E tutto si ripete. Ancora una volta in Nigeria, si torna a parlare del gruppo terrorista dei Boko Haram (un’espressione della lingua hausa che significa «l’educazione occidentale è peccaminosa», unendo il termine Boko, ossia «educazione occidentale», all’arabo Haram, che rimanda ad un divieto legale così come al peccato), alleatosi con il Daesh, il cosiddetto Stato islamico, che intende instaurare un califfato universale.
In realtà se il nome di battaglia è questo, l’organizzazione jihadista, salafita e takfirita (ossia che basa la sua predicazione sull’accusa, rivolta ad altri musulmani, di essere apostati; l’espressione araba takfir rimanda alla radice kafir, «infedele») è altrimenti conosciuta come Gruppo della Gente della Sunna per la propaganda religiosa e il Jihad (Jamāʿat Ahl al-Sunna li-daʿwa wa l-Jihād).
Nei giorni scorsi una decina di persone ha perso la vita in due attentati suicidi, il primo dei quali commesso da una bambina di dieci anni e l’altro da una donna anziana.
Da tempo Boko Haram usa l’infanzia come strumento di morte, imbottendo di esplosivi i corpi di indifese e inconsapevoli killer.
Le due kamikaze si sono ‘immolate’ in prossimità di luoghi di preghiera, in occasione della ricorrenza di Eid al-Fitr, quando i musulmani celebrano la fine del mese di digiuno islamico del Ramadan. Entrambe hanno agito a Damaratu, la capitale dello stato di Yobe, nella Nigeria nord-orientale. Il duplice attentato è avvenuto a meno di dodici ore dall’esplosione di una bomba a Gombe, capitale dell’omonimo stato nigeriano, che ha provocato 34 morti. L’attacco terroristico, anche in quest’ultimo caso, ha preso di mira un luogo pubblico, ossia un mercato, affollato dalla gente che faceva acquisti per la festività prossima ventura. Nel solo mese di Ramadan di quest’anno si calcola che nella Federazione nigeriana siano morte non meno di trecento persone. Il ripetersi delle violenze indica come il primo obiettivo dei jihadisti rimangano i musulmani stessi, all’interno di una strategia di destabilizzazione regionale che coinvolge non solo la Nigeria ma anche il Ciad, il Niger e il Camerun. Già il massacro di Baga (nello Stato nigeriano del Borno), un insieme di attacchi terroristici e di uccisioni in massa, compiuti a ripetizione tra il 3 e il 7 gennaio di quest’anno, aveva causato la distruzione di sedici villaggi, della medesima città di Baga – sede del quartiere generale del Multinational Joint Task (l’alleanza interforze che ha l’obiettivo di contrastare a livello regionale la lotta armata condotta dal radicalismo islamista) – insieme alla morte di un numero imprecisato di vittime.
Due anni prima, sempre nei medesimi luoghi, i Boko Haram avevano già assassinato quasi duecento persone. Negli scontri avvenuti con l’esercito in quei giorni, circa duemila abitazioni civili erano state distrutte. I Boko Haram, il cui attuale leader Abubakar Shekau ha recentemente dichiarato di volere istituire un «califfato islamico» a partire dalla Nigeria del nord-est e dallo stesso Stato del Borno, ufficialmente nascono nel 2002 su ispirazione di Ustaz Mohammed Yusuf nella città di Maiduguri. L’obiettivo originario, nell’intricato mosaico di interessi e tensioni in gioco in tutta la Federazione nigeriana, all’interno del conflitto che contrappone popolazioni musulmane a quelle cristiane, è di instaurare la Sharia nel Borno. Come molti movimenti islamisti, anche i Boko Haram partono dalla predicazione e dall’istruzione religiosa musulmana per poi muoversi verso ben altri più premianti target. I quali diventano da subito politici. Inizia così il reclutamento di militanti jihadisti, indicando nell’abbattimento dello Stato federale il nuovo, più ambizioso obiettivo. Così, quindi, nei confronti di quanti, dai paesi limitrofi, come il Ciad e il Niger, vanno a riempire le file della nuova organizzazione che, nel mentre, ha adottato l’arabo come lingua di rifermento. Cavallo di battaglia nella costruzione del consenso intorno a sé è la dichiarazione di volere lottare contro la corruzione dilagante tra le autorità governative e gli arbitri della polizia. La diffusa disoccupazione e il risentimento sociale che deriva dal senso di esclusione fanno la parte restante. Boko Haram assurge alle cronache internazionali nel 2009, durante il ciclo di violenze religiose nelle quali è protagonista. Di fatto, questo evento segna però una cesura al suo interno poiché con la morte del fondatore Ustaz Mohammed Yusuf l’organizzazione, originariamente unitaria, si fazionalizza al suo interno, dividendosi in almeno tre tronconi. La costante rimane tuttavia quella dell’aggressione terroristica contro la popolazione civile. Del Daesh i Boko Haram hanno adottato lo stile comunicativo (sia pure con risultati di molto inferiori), ricorrendo ai video trasmessi sul web e diffusi anche tra i social network. In realtà le consonanze con lo Stato islamico di Al Baghdadi sono assai meno pronunciate di quanto non sembri. Parrebbe, inoltre, che Al Qaida di Al Zawahari, ritenga i jihadisti africani poco o nulla affidabili. A nord, nella regione dell’Africa maghrebina e mediterranea, i clan e i gruppi musulmani armati guardano con grande sospetto le fazioni di Abubakar Shekau, in un rapporto di conflittuale cooperazione, per così dire, nelle grandi e premianti tratte delle armi, degli emigranti illegali e clandestini, delle droghe e di ogni genere di materiale illecito. Il tutto, va da sé, nel nome del «governo della virtù e della fede autentica». Plausibile, ad una ipotesi sul futuro di Boko Haram, qualora non ottenesse il suo agognato ‘califfato’, che cerchi di disegnarsi un ruolo non troppo dissimile da quello svolto da certe formazioni paramilitari e pseudorivoluzionarie presenti in America Latina, da tempo dedite al lucroso narcotraffico. La frammentazione dei gruppi terroristici è peraltro un dato di fatto. L’unico elemento certo che permette di sperare che nessuna coalizione di criminali possa tradursi per davvero in una forza in grado di rovesciare definitivamente i poteri costituiti. I quali, peraltro, navigano ‘felicemente’ nella più totale ingiustizia, perlopiù indifferenti al destino delle collettività.
Claudio Vercelli, storico
(19 luglio 2015)