…speranze

Il digiuno di Tisha be-Av (9 di Av) con cui si ricorda la distruzione del primo e del secondo Tempio di Gerusalemme mi sembra una buona occasione per riflettere sul significato che la storia e il suo racconto assumono nella civiltà ebraica. Le posizioni nel mondo ebraico a proposito della storia dell’umanità sulla terra (e degli ebrei in questo contesto) sono piuttosto varie e spesso distanti. Si va dal rifiuto della prospettiva storico-cronologica fondato su una lettura estrema del principio “ein mukdam u’meuchar ba-Torah” (non esiste un prima e un dopo nella Torah), per giungere alla valorizzazione estrema della medesima prospettiva, assunta come principio soprattutto negli ambienti dell’ebraismo “Conservative”. Fra le due posizioni, si contano naturalmente multiformi comportamenti intermedi, che come al solito rendono complicato affermare quale sia – se c’è – una visione storica omogenea condivisa nel mondo ebraico.
Di fatto però, l’evento che viene ricordato con il digiuno del 9 di Av è quello che – dopo l’uscita dall’Egitto e il dono della Torah – ha generato le conseguenze storiche più significative, che ancora oggi hanno un peso importante nelle dinamiche interne al mondo ebraico. La distruzione del Tempio ha prodotto la diaspora, e senza la diaspora babilonese, per dirne una, non avremmo il Talmud. Ma non avremmo anche molte altre cose: le diverse edòth (sefarditi, ashkenaziti, italiani, romanioti, betà Israel e così via), con le loro tradizioni particolari; la letteratura mistica (dalla quale in gran parte deriva proprio il rifiuto della prospettiva cronologica); la musica sinagogale; lo stesso sionismo, un movimento che non poteva che sorgere nella diaspora. E in fondo la stessa costruzione dell’Israele laica e religiosa contemporanea può essere vista come un incontro di diaspore, spesso molto gelose (giustamente) delle proprie tradizioni. Quindi l’evento storico – su cui ci troviamo a piangere con la lettura del testo di Echà (Lamentazioni) la sera in Beth hakenesset, seduti per terra al lume di una candela – è stato importante, e per certi versi ha determinato la storia di Israele nei millenni a venire.
Nella ritualità questo giorno ha assunto una sua portata che va al di là dell’evento a cui si riferisce. Trascinati dalla lettura del testo e delle kinnòth (elegie) che lo accompagnano, e suggestionati da una coreografia toccante e coinvolgente, ci si ritrova a considerare la storia che viene ricordata come il prototipo di quella che il grande storico americano Salo W. Baron chiamava la “storia lacrimosa”. In una prospettiva storiografica, questa idea di pensare alla storia degli ebrei come a un incessante susseguirsi di persecuzioni ha da tempo perso credibilità. Tuttavia questa percezione, questa idea di essere perseguitati sempre e ovunque e da chiunque ha maturato radici profondissime che sono difficili da estirpare. Eppure, se leggessimo con la dovuta attenzione i testi che troppo spesso recitiamo meccanicamente, scopriremmo che in antichità la prospettiva era diversa. Anche a fronte del dolore devastante nel vedere Gerusalemme travolta e offesa, l’autore di Echà trova il modo di affidarsi alla speranza (Echà 3,20-21): “L’anima mia continuamente ricorda (Zakhòr) e si avvilisce. Ma questo io ancora voglio richiamare alla mia mente, e perciò spero ancora.” E poi ai versi 34-36: “(il Signore) non vuole che uno calpesti sotto i Suoi piedi tutti i prigionieri della terra, non vuole che si perverta il diritto di un uomo di fronte all’Altissimo, non vuole che uno faccia torto a un uomo nella sua contesa, senza che il Signore lo veda.” La prospettiva – quindi – mi sembra positiva e fiduciosa, di speranza. Il ruolo della storia e la funzione del ricordare (Zakhòr) assumono una centralità positiva che troppo spesso mi sembra sbiadire nella nostra contemporaneità. Una storia vissuta con dolore può generare un presente di speranza. Poi – naturalmente – va sempre tenuto conto dell’ultima frase di Echà (5,21), che poi è quella che si recita ogni Shabbat quando si ripone il Sefer Torah nell’Aròn: “Facci tornare, o Signore; a Te ritorneremo. Rinnova i nostri giorni come in antico”, che è chiaramente un’aspirazione messianica. Ma questa, anche nell’invocazione impotente che viene recitata, rimane al di fuori delle prerogative umane, e della storia stessa.

Gadi Luzzatto Voghera, storico

(24 luglio 2015)