La violenza, le donne

Sara Valentina Di PalmaComplice il caldo soffocante, un colpo di freddo da aria condizionata, e uno di caldo per una corsa sotto il solleone, la febbre (con 40 gradi all’ombra, fuori da me stessa) può anche avere i suoi risvolti positivi, come quella sensazione di spossatezza e di sonnolenza grazie alla quale i pensieri possono vagare sciolti. Una giornata di studi a Ca’ Foscari per la Giornata mondiale sulla tortura il 26 giugno scorso, donne vittime di violenza e donne perpetratrici, e se la violenza arrecata possa essere in qualche modo correlata alla diversità di genere: più fisica quella prodotta da uomini, più psicologica e verbale quella attuata dalle donne?
Dove collocare, e come spiegare Celeste Di Porto che si accompagnava ai nazifascisti salutando i suoi conoscenti ebrei affinché venissero arrestati e deportati? E il ministro per la Famiglia e la Promozione Femminile rwandese, Pauline Nyiramasuhuko, sotto processo presso la Corte Penale Internazionale per il Rwanda con l’accusa, fra le altre, di aver implementato il sistema degli stupri di massa di donne tutsi e hutu moderate nel genocidio del 1994?
La filosofa Rada Iveković sostiene che il genere è una costruzione culturale, e che uscire dalla logica di genere implica abbandonare schemi mentali cui ci abituano sin dalla nascita; in riferimento alle guerre di dissoluzione della Jugoslavia negli anni Novanta, l’aggressività nazionalista delle Repubbliche Jugoslave è passata attraverso l’identificazione della Madre-nazione violata dal ‘nemico’, e non a caso, di nuovo, lo stupro di massa è stato una diffusa strategia bellica.
Iveković ricorda, però, anche il ruolo femminile nel provare a scardinare quel nazionalismo aggressivo, e che a fronte di madri pronte a mandare con entusiasmo i figli in guerra per difendere la Madre-Patria, ci siano state anche donne le quali hanno provato a gettare ponti oltre le barriere nazionali in costruzione. Anche perché, e questo punto del suo pensiero mi ha colpito molto, la donna sarebbe più portata alla sfida dell’accettazione dell’alterità, visto che le donne si trovano a mettere al mondo anche figli maschi, e a doversi quindi confrontare con (l’amore per) la diversità.
Fatto sta che mi ritrovo a pensare a due donne molto diverse nel perpetrare e nel fronteggiare violenza, in questo caso psicologica, nel romanzo di Daphne du Maurier, Rebecca la prima moglie, reso celebre dall’omonimo film girato da Alfred Hitchcock dal settembre del 1939, mentre la Germania hitleriana invadeva la Polonia dando inizio al Secondo conflitto mondiale. Nella storia una giovane donna, di cui non sapremo mai il nome, da anonima dama di compagnia si trova a sposare in seconde nozze un affascinante e ricco aristocratico, precocemente rimasto vedovo. Potrebbero essere felici, se non fosse per il fantasma ingombrante della prima moglie, Rebecca, di cui invece non vedremo mai il volto, ma onnipresente a causa dell’amore ossessivo della governante per la prima padrona di casa. Nulla per la giovane protagonista è come sembra, e la suspense deriva dal fatto che la realtà muta continuamente: la seconda moglie teme il confronto con la prima e crede di non essere all’altezza per un marito forse ancora innamorato di Rebecca, mentre il consorte ha scelto la nuova compagna e la ama proprio perché diversa; Rebecca da donna colta e raffinata, moglie e donna di valore quale emerge soprattutto nei ricordi della governante e negli oggetti personali da lei debitamente sparsi in casa, si rivela in realtà crudele e arida calcolatrice, infedele e spietata.
La storia si dipana filtrata dallo sguardo della giovane protagonista, costretta suo malgrado a combattere con il carisma della prima moglie defunta e soprattutto con la governante, che forse alla fine vince la guerra, dando fuoco al maniero di famiglia per punire la nuova coppia.
Ma forse a pensarci bene perde, perché se la protagonista può raccontarci nel prologo il sogno sul castello ormai distrutto dal fuoco, sappiamo che la coppia ne è uscita viva, e che apprendere la verità sul perverso rapporto tra Rebecca e il marito rende la seconda moglie forte e volitiva, capace di assumere il controllo della situazione, di fronteggiare la governante e infine di andarsene insieme al consorte. Alla fine, penso misurandomi la temperatura, forse la storia ci parla non solo di sudditanza psicologica, ma anche della presa di coscienza delle proprie capacità, della ricerca della verità e della consapevolezza che, davanti ai soprusi, si deve e si può comunque reagire.

Sara Valentina Di Palma

(30 luglio 2015)