osservanza…

Chi è a contatto con ambienti di dialogo interreligioso sa che molto spesso anche persone sinceramente vicine e amiche non possono fare a meno di esprimere un certo stupore in merito al nostro atteggiamento relativo alle mitzwòth. L’attaccamento ad esse, benché rispettato ed ammirato, attira comunque il retropensiero che noi si sia troppo formalisti. A volte, a pensarlo sono anche alcuni ebrei non di stretta osservanza, che ritengono l’osservanza delle mitzwòth qualcosa di troppo rigidamente formale, privo di afflato spirituale.
Come sappiamo, la Torà contiene tre tipi di mitzwòth: “chuqqìm”, “mishpatìm” e “toròth”. Le prime sono quelle mitzwòth che sembrano non avere alcuna logica spiegazione; le seconde sono quelle che un comune senso di etica civile e sociale, o un comune senso di giustizia, ci fanno agevolmente accettare, al punto che anche se non fossero scritte nella Torà le eseguiremmo comunque; le terze sono quegli insegnamenti (tale è il significato letterale del termine) ai quali non avremmo pensato se la Torà non ce li avesse indicati, ma dal momento che essi sono stati dati fanno parte di una comune logica, accettabile da chiunque. È dunque da queste che si può comprendere che, se sono giuste e vere, il fatto che ad esse siano associate anche quelle che definiamo “chuqqìm” e “mishpatìm” ci indica che anche “chuqqìm” e “mishpatìm” partecipano dello stesso crisma di verità e di profondità.
Quando la Parashà ci dice che osservando come viviamo il nostro rapporto con i “chuqqìm” e i “mishpatìm” (se noi lo viviamo in maniera corretta) le genti dovranno riconoscere che siamo un popolo grande e speciale, un popolo con un fortissimo legame con Ha-Qadòsh Barùkh Hu’, intende dire proprio questo: soltanto se noi abbiamo un corretto atteggiamento verso tutte le mitzwòth della Torà la gente capisce che il nostro non è formalismo, bensì l’adesione ad un sistema di vita di infinito valore etico, che è espresso da tutti i tipi di mitzwòth; ed anzi, se nella nostra vita viene a mancare un tipo di mitzwòth, la nostra sussistenza diventa incomprensibile.

Elia Richetti, rabbino

(30 luglio 2015)