Periscopio
La regia dell’orrore
Sembrerebbe davvero esserci una sinistra regia dell’orrore dietro il doppio orrendo crimine che ha recentemente insanguinato Israele; una regia il cui primo obiettivo pare quello di deturpare in modo osceno l’immagine dell’ebraismo, le fondamenta etiche del popolo mosaico, gli eterni ideali del sionismo, da sempre indissolubilmente legati alle idee di libertà, pace, giustizia, concordia tra gli uomini e le nazioni.
Siamo abituati, purtroppo, a indignarci davanti alle bandiere di Israele imbrattate dai vandali antisionisti e antisemiti, e la ricorrente immagine del drappo bianco e azzurro macchiato di rosso ci procurano rabbia, pena, disgusto.
Ma quella bandiera è stata profanata in modo infinitamente più grave da chi, accecato da un odio bestiale, ha reciso le giovani vite di Ali Saad Dawabsheh e Shira Banki, accomunate in un tragico e assurdo destino. I responsabili sono i peggiori nemici di Israele e dell’ebraismo: so bene che questi due termini vengono interpretati spesso in modi anche molto diversi, a seconda della formazione culturale e delle idee politiche e religiose di chi li usa, ma, in tale varietà eccezioni, resta ferma e assoluta la convinzione che queste due parole, ‘ebraismo’ e ‘Israele’, qualsiasi cosa significhino, indicano comunque valori opposti a quelli degli assassini.
Il fatto che l’accoltellatore della giovane Shira appartenga a un gruppo di ‘ultraortodossi’ suona come un assurdo ossimoro, suscita la stessa sensazione di sconcerto sollecitata dalle immagini di Yigal Amir, l’assassino di Rabin, con la kippah in testa. Sono certo che il responsabile conosca a memoria i versetti della Torah che proibiscono i rapporti omosessuali e che sarebbe anche in grado di trovare qualche antica citazione sul dovere di difendere la ‘purezza’ della Terra di Israele. Ma sono altrettanto certo che non ha capito nulla della Torah, se ne isola alcune parole, trasformandole in veleno, estraendole da un contesto ampio e complesso, il cui senso profondo coincide con una umile e continua interpretazione dell’alleanza tra l’uomo e il suo Creatore, nella quale la vita umana figura come un bene sacro e intangibile.
Quanto agli assassini del piccolo Ali e alla scritta da loro lasciata sul luogo del misfatto, invocante l’arrivo del Messia, so solo che, per lunghi secoli, il Messia è stato atteso negli shtetl dell’Ucraina e della Russia, nei villaggi e nelle città della Polonia e della Germania, sui lidi e nelle oasi di Libia e Marocco, da generazioni di ebrei devoti, dediti allo studio, al lavoro e alla preghiera, che hanno sopportato in silenzio mille tribolazioni per non tradire l’insegnamento ricevuto dai loro padri.
E la fiducia nell’avvento del Messia è stata ribadita, da tanti martiri, anche sulle soglie delle camere a gas. Chiunque sia il Messia, si creda o no nel suo arrivo, non calzerà certamente la maschera feroce che gli attribuiscono i vili attentatori che, per propiziarne l’arrivo, buttano una bottiglia incendiaria nella stanza dove dorme una madre con i suoi figli.
Un motivo di speranza e di consolazione, nonostante tutto, viene dalla forza dell’unanime esecrazione giunta da tutte le componenti della società israeliana e dalle comunità ebraiche di tutto il mondo. Non c’è dubbio che quanto è accaduto dovrà sollecitare una maggiore vigilanza e una più forte azione di contrasto nei confronti di un certo estremismo violento, fenomeno che è stato, forse, sottovalutato, anche per la continua necessità di dover fronteggiare i soliti nemici esterni. Ma la democrazia e la società d’Israele dispongono di tutte le necessarie risorse morali per una forte e determinata risposta anche su questo fronte. Prendano esempio da questa reazione tutti i nemici di Israele e degli ebrei, che oggi gridano allo sdegno per il piccolo Ali, invocando vendetta (già una donna israeliana ha rischiato di morire bruciata viva per una molotov lanciata nella sua auto) e applaudono, o, nel migliore dei casi, tacciono, quando le vittime sono ebree e gli assassini sono arabi.
Francesco Lucrezi, storico
(5 agosto 2015)