J-Ciak – Tikkun e la rinascita impossibile
Se torno a nascere… È uno di quei pensieri capaci di assediarci la mente. Ma se davvero potessimo ricominciare, che cosa faremmo?
Ruota attorno a quest’interrogativo “Tikkun”, ultimo bellissimo lavoro di Avishai Sivan che, dopo aver spuntato il premio come miglior lungometraggio al Jerusalem Film Festival, martedì è in concorso internazionale al festival di Locarno. Il film prende spunto dal termine ebraico ‘tikkun’, che indica la correzione o il miglioramento, e mette in scena un’impossibile seconda opportunità, resa ancora più drammatica dal mondo ultraortodosso di Mea Shearim in cui l’intera storia si dipana e dalla crudezza di alcune scene.
“L’ebraismo sostiene l’idea della reincarnazione, la credenza in un ciclo dell’anima, nel ritorno al mondo dopo la morte biologica”, spiega il regista. “Tikkun è l’anima che torna al mondo dei vivi per correggere una questione irrisolta nella sua vita passata e redimersi prima di muovere verso il prossimo mondo”. Il film narra la storia di Haim-Aron, studente di yeshiva brillante e destinato a un grande futuro. Una sera sviene durante un digiuno che si è autoimposto e perde conoscenza. I paramedici lo danno per morto, ma il padre – interpretato dal bravo Khalifa Natour, attore arabo israeliano – cerca in tutti i modi di rianimarlo.
Haim-Aron ce la farà a tornare in vita, ma da quel momento le cose cambieranno. Il giovane sperimenta il risveglio del corpo e dei sensi, trascura gli studi e inizia a esplorare il mondo al di là dei confini di Mea Shearim. Il padre intanto sprofonda in una crisi di coscienza, chiedendosi se sia stato giusto forzare il volere divino nella disperata notte in cui il figlio stava per andarsene.
Girato interamente in bianco e nero, “Tikkun” è un film potente, denso di poesia, simboli e visioni oniriche, che si dipana in una Gerusalemme invernale, spesso spazzata da vento e pioggia. Gran parte del suo fascino viene dal mondo che narra, un universo scandito da regole ferree e dal controllo totale sulle vite di chi ne fa parte. La parabola dolente di Haim-Aron, da ragazzo prodigio destinato a divenire uno dei leader a motivo di scandalo e preoccupazione, ci consente di gettare uno sguardo su una realtà che continua ad affascinare filmaker e spettatori.
Ad aggiungere un tocco importante di veridicità è l’attore protagonista, Aharon Traitel, ex studente di yeshiva che ha abbandonato la vita religiosa, individuato da Avishai Sivan dopo molte audizioni. Come racconta il regista, a convincerlo è il fatto che, a differenza di altri candidati, Traitel suggerisce alcune modifiche allo script e traduce alcune scene in yiddish finendo così per guidare Sivan in un’approfondita ricerca all’interno del mondo ortodosso. Un percorso che ricorda per molti versi quello del film “Felix e Meira” (2015) del canadese Maxime Giroux, in cui a curare i dettagli è stato l’attore protagonista, Luzer Twersky, nato e cresciuto nella comunità Satmar, che ha lasciato dopo il divorzio.
“Tikkun”, secondo capitolo di una trilogia iniziata nel 2010 con “The Wanderer”, non è un film facile. La vocazione sperimentale del regista a tratti si fa troppo marcata, come i simbolismi e le scene troppo esplicite. Ma è uno di quei film che riescono nella rara impresa di aprirci altri mondi e metterci davanti alle grandi domande. Se potessimo tornare indietro, davvero saremmo capaci di riparare le nostre vite?
Daniela Gross
(6 agosto 2015)