Sei sensi
“Allora ti dirò solo questo: se Dio esiste, ha molte ragioni per essere triste. E se non esiste, secondo me anche questo Lo rattrista non poco. Insomma, per rispondere alla tua domanda, Dio deve essere triste” (Jonathan Safran Foer, Ogni cosa è illuminata, Guanda, p. 97).
Un posto particolare occupa “Ogni cosa è illuminata” nel personalissimo mio ‘Lessico famigliare’ imbastito di neologismi, espressioni infantili (non nel senso negativo che attribuiamo scioccamente noi adulti ma: ‘formulate da bambini’), gergo memoriale e citazioni dai classici – e per classici intendo, alla Calvino, quei libri che non ci si accontenta di leggere ma si rileggono ancora e ancora, che arricchiscono e influenzano il modo di sentire e di pensare e dunque di vivere, che continuano a parlarci e ogni volta in modo un po’ diverso e nuovo, e assaporarli è sempre una gioia inedita; quei libri che non ci lasciano mai indifferenti e risuonano in noi nel proseguo della nostra vita.
Perché, come scrive ancora Jonathan Safran Foer, gli ebrei hanno sei sensi e il sesto senso è la memoria. La prima parola delle Asseret Ha Dibberot non dice infatti semplicemente che dobbiamo ricordare D-o ma specifica che Io sono il Signore D-o tuo che ti fece uscire dalla terra d’Egitto, dalla casa degli schiavi: dobbiamo allora ricordare il dono della libertà che ci ha fatto D-o.
Noi siamo dunque memoria, memoria di libertà, accettando la quale accettiamo la Legge che ci dona D-o con la Sua Torah e ci facciamo popolo. Questo Patto inciso su pietra tra Am Israel e D-o, ci insegna la Mishnah è sì Harut, inciso ma anche Herut, libertà (Avot 6:2). Forse cerchiamo oggi il libero accordo con D-o non nella pietra incisa, ma nel provare a farci una realtà sacrale di preghiere e di testi, rivolti a D-o e volti a raffigurare il mondo e la nostra comprensione di esso, la creazione dei Cieli e della Terra e la necessità di consolarci e di consolare D-o della sua tristezza.
Opere che noi scriviamo, testi, nel senso etimologico di textus, intessuto e intrecciato: filare il legame tra significante e significato, tra noi e D-o che ‘prima’ ci ha liberato dall’Egitto e ‘poi’ ha creato il mondo, senza possibilità di logica temporale.
“Ho riflettuto molto sulla nostra rigida ricerca, mi ha dimostrato come ogni cosa sia illuminata dalla luce del passato”, esordisce Alex scrivendo a Jonathan (Safran Foer) anzi Jonfen, e riferendosi (credo io) alla luce della Presenza divina che dà senso a quanto è stato, ci aiuta ad accettare gli accadimenti e a provare a vivere al meglio il presente.
Per farlo abbiamo la preghiera, ma anche la poesia, la scrittura, l’arte, il tessere lode al Creatore e dirGli che cerchiamo di portare avanti in qualche modo, sbagliando anche e ritornando sui nostri passi, il Tikkun Olam.
Ognuno come può; Jonathan Safran Foer raccontando l’amore e il dolore del passato e la faticosa certezza che l’unico modo di vivere davvero è essere coerenti con noi stessi; l’artista Grisha Bruskin con il ciclo Alefbet, perché esprimersi intessendo arazzi tiene insieme trama e ordito, tessuto e tessitura, le scintille di luce cadute nella Creazione del mondo e il nostro tentativo maldestro e imperfetto di riportare nei Cieli quelle scintille.
I tappeti di Bruskin diventano quadri, e i quadri sono animati di lettere e di figure, ognuna dotata di un particolare significato religioso e mitologico e allineata alle altre fuori dal continuum temporale, perché la Torah c’era già prima di tutto.
Nei cinque arazzi, si dispiegano così diversi personaggi (per la precisione centosessanta, ma potrebbero essere molti di meno o molti di più) costituiti da coppie umane, demoni e angeli, uomini in preghiera o accompagnati da simboli, a costituire un vocabolario della memoria del Popolo Ebraico in dialogo con D-o, fuori dal tempo e dalla Storia ma illuminato dalla Shekinah e dalla luce del passato. Popolo che ha il dovere della memoria, scolpita sulla pietra, even / av, ben di padre in figlio, di generazione in generazione.
E immagino (o forse sogno): negli angeli che risalgono la scala vista da Jakov c’è l’uomo che cerca D-o e vuole consolarne la tristezza. E immagino, o forse sogno, di risalire un poco la scala dietro agli angeli, soffiando verso il cielo una delle centosessanta figure prese dagli arazzi di Bruskin, il quale spero non me ne vorrà: l’uomo la cui testa si dissolve nello sfondo dell’arazzo, perché al posto del viso egli è solo luce, purificato e pronto ad incontrare D-o: “Se salgo nei Cieli, tu sei lì, e se scendo nello Sheol, eccoti laggiù. Se prendo le ali dell’alba e vado ad abitare le estremità occidentali del mare, anche qui la tua mano mi guiderà e la tua mano destra mi afferrerà” (Tehillim 139:8-10).
Sara Valentina Di Palma
(6 agosto 2015)